Neuroetica, cantiere aperto. E siamo solo all’inizio…

Neuroetica, cantiere aperto. E siamo solo all'inizio...La neuroetica, “campo disciplinare fluido, dai confini elastici”, si troverebbe ancora in una fase “pre-paradigmatica, ovvero priva di quella strutturazione all’interno della quale si svolge un lavoro di ricerca regolato dalla comunità degli studiosi”. Così si esprimono Andrea Lavazza e Giuseppe Sartori sul Giornale Italiano di Psicologia (a. XXXVII, n. 4), formulando una “proposta” che ha già dato il la a un vivace dibattito fra le voci più autorevoli del panorama scientifico italiano.

Nell’intento di arrivare a una “definizione più specifica di che cosa potrebbe diventare la neuroetica” (secondo gli Autori una “«disciplina» la cui denominazione origina da un prefisso – «neuro» – che richiama lo studio del cervello più che della psiche e di un sostantivo – «etica» – che rimanda direttamente alla filosofia” [1]), Lavazza e Sartori iniziano l’esplorazione di questo territorio relativamente vergine ponendo alla comunità scientifica domande importanti: “se si considera la nuova «disciplina» uno spazio di intersezione tra altri campi strutturati del sapere – dalle neuroscienze alla psicologia, dalla filosofia alla genetica molecolare e alla teoria dell’evoluzione –, qual è la differenza sostanziale rispetto a quell’ambito definito ormai con un certo consenso «scienze cognitive»?”. Allo stesso modo si chiedono anche “se la neuroetica sia una «disciplina» principalmente legata alla chiarificazione concettuale e a qualche forma di prescrittivismo morale (come la bioetica, ad esempio), traendo dall’esterno i dati empirici su cui lavorare, oppure se abbia la necessità e l’ambizione di muoversi anche sul terreno sperimentale, rinunciando comunque, almeno in parte, all’avalutatività tipica delle scienze «dure»”.

Richiamando il recente dibattito sviluppatosi sempre sulle pagine del Giornale Italiano di Psicologia a seguito della pubblicazione del fortunato libro di Paolo Legrenzi e Carlo Umiltà “Neuro-mania. Il cervello non spiega chi siamo” (Il Mulino, 2009; vedere in proposito l’intervista di BrainFactor del 1/4/2009 al professor Umiltà), gli Autori precisano che la loro proposta “non vuole tanto introdurre principi esterni che debbano fungere da guida, bensì applicare considerazioni «pragmatiche» a un diffuso progetto di «naturalizzazione» completa dell’indagine sull’essere umano, che non pare attualmente sostenibile né metodologicamente, né socialmente”.

Lavazza e Sartori ripercorrono quindi le tappe fondamentali del progressivo consolidamento di questo nuovo ambito interdisciplinare, dal primo “simposio di neuroetica” tenutosi a San Francisco nel 2002 (in cui Safire definiva la materia come “l’esame di che cosa è giusto e che cosa sbagliato, di che cosa è bene e che cosa è male nel trattamento, nel perfezionamento, nelle intrusioni indesiderate e nelle preoccupanti manipolazioni del cervello umano”, malato o sano che sia), alla definizione dell’acronimo “Elsi” per designare le “implicazioni etiche, legali e sociali” delle neuroscienze, alla distinzione operata dalla Roskies fra “etica delle neuroscienze” e “neuroscienze dell’etica” (queste ultime da intendersi come una sorta di “riflessione metaetica […] sul ragionamento morale a partire dalle basi cerebrali”), maturando infine una posizione decisa destinata a far discutere: “l’etica delle neuroscienze con i suoi Elsi andrebbe sostanzialmente ricompresa in ciò che si definisce bioetica, non avendo di per sé una carattere specifico”, perché “una decisione medica non differisce se riguarda il cuore o il cervello” e “non è necessario reinventare ogni volta la ruota”…

Per gli studiosi italiani insomma potrebbe essere proprio la bioetica, in forza della sua consolidata tradizione, a “mettere a disposizione i suoi strumenti anche per affrontare i dilemmi che sorgono nelle applicazioni delle neuroscienze” e la neuroetica riservarsi il “terreno specifico” attinente la “riflessione circa ciò che apprendiamo su noi stessi e il nostro funzionamento grazie principalmente (ma non esclusivamente) alle neuroscienze”, perché è proprio la “naturalizzazione forte dell’indagine sull’essere umano a rendere pertinente [questa] metadisciplina”.

In tale ottica – sostengono gli Autori – la neuroetica può rappresentare “una nuova prospettiva di riflessione e di ricerca che non sia esclusivamente legata alle neuroscienze, ma abbia su di esse un focus speciale, ricomprendendo le altre scienze che hanno proprio come oggetto l’essere umano nella sua dimensione naturale”, assumendosi il compito di ragionare “sugli aspetti metodologici, sulla chiarificazione concettuale e l’unificazione delle prospettive particolari e specifiche, analizzando le conseguenze sociali e pragmatiche  delle nuove conoscenze, nonché sugli aspetti metaetici che ne discendono”.

Per dare concretezza alla loro proposta Lavazza e Sartori illustrano diversi “esempi preliminari di filoni che potrebbero rientrare nella neuroetica” – che in questa sede non ci è possibile approfondire a dovere -, toccando argomenti di attuale interesse legati alla psicologia della personalità, alla terapia faramcologica, alla psicoterapia, a “concetti filosofici” quali l’autonomia personale, il libero arbitrio, la normatività morale, a sostegno dell’ipotesi che la neuroetica possa trovare una sua ragion d’essere proprio nella “considerazione delle conseguenze conoscitive e pragmatiche della naturalizzazione dell’indagine sull’essere umano”.

La discussione in merito alla proposta di Lavazza e Sartori si anima dunque sulle pagine del Giornale Italiano di Psicologia (a. XXXVII, n. 4), con i contributi di Alessandro Antonietti dell’Università Cattolica di Milano (per il quale la neuroetica è attualmente un campo di intersezione tra discipline che hanno un proprio statuto e che “condividono l’interesse per una tematica, ossia il giudizio e il comportamento morale”), di Laura Boella dell’Università Statale di Milano (che considera il potenziamento come la frontiera neuroetica per eccellenza), di Tommaso Bruni dell’Istituto Firc di Oncologia Molecolare di Milano e di Giovanni Boniolo dell’Università di Milano (che contestano il rischio di una “balcanizzazione della bioetica”), di Gilberto Corbellini ed Elisabetta Sirgiovanni della Sapienza Università di Roma (che ritengono la posizione di Lavazza e Sartori caratterizzata da “normatività e conservatorismo”), di Roberto Cubelli e Pierluigi de Bastiani dell’Università di Trento (che sembrano “contestare un presunto approccio unidimensionale alla valutazione della capacità di intendere e di volere attribuendolo, in particolare, a uno degli scriventi”, come sottolineano Lavazza e Sartori nell’articolo di risposta ai commenti dei colleghi), di Massimo Marraffa dell’Università Roma Tre (che prende di mira l’equilibrio riflessivo della proposta, criticandone la plausibilità epistemologica), di Sofia Moratti dell’Università di Trieste e di Raffaella Ida Rumiati della Sissa di Trieste (per le quali la proposta avanzata da Lavazza e Sartori manifesterebbe in sostanza una incoerenza di fondo), di Roberto Mordacci dell’Università Vita Salute San Raffaele di Milano (che ribadisce che la peculiarità del complesso “neuro” è fornita dalla sua vicinanza di espressione rispetto a pensiero e comportamento, diversamente dai geni), di Alberto Oliverio della Sapienza Università di Roma (che denuncia la sopravvalutazione dell’attività preponderante di una specifica struttura cerebrale in rapporto a un comportamento specifico), di Alfredo Paternoster dell’Università di Bergamo (per il quale c’è ancora molta ricerca da fare prima di tracciare qualche linea…), di Pietro Pietrini e Silvia Pellegrini dell’Università di Pisa (che focalizzano la loro attenzione sui recenti contributi della genetica molecolare e del neuroimaging in questo ambito di riflessioni), di Alberto Priori dell’Università di Milano e IRCCS Cà Granda Ospedale Maggiore Policlinico di Milano (che traccia una descrizione del campo neuroetico a partire dalla ricerca sperimentale di laboratorio), di Luca Surian dell’Università di Trento (per il quale la neuroetica non dovrebbe occuparsi delle questioni legate alla genetica del comportamento).

Alla luce delle riflessioni dei loro colleghi, “tutte importanti per l’apporto alla discussione, eppure assai diverse per impostazione e conclusioni” (fra cui si possono in sostanza “individuare tre questioni di base” relative al “problema del nome”, al “problema della disciplina”, al “problema delle tesi sostantive”), Lavazza e Sartori hanno l’impressione di trovarsi “di fronte a un cantiere aperto” e  di essere “solo all’inizio” [2], non nascondendo una punta di orgoglio per essersi spinti, fra i primi, “in terra incognita”…

References:

  1. Lavazza A., Sartori G., Neuroetica. Una nuova prospettiva di ricerca, in Giornale Italiano di Psicologia, a. XXXVII, n. 4, dicembre 2010
  2. Lavazza A., Sartori G., Neuroetica. Una cantiere aperto. (Risposta ai commenti), in Giornale Italiano di Psicologia, a. XXXVII, n. 4, dicembre 2010

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Marco Mozzoni
Direttore Responsabile

2 Comments on "Neuroetica, cantiere aperto. E siamo solo all’inizio…"

  1. E’ una delle questioni universali che periodicamente si ripresenta con maggiore complessità, alla luce delle nuove conoscenze. Isomorfismo o diversità tra neuroetica e scienze cognitive? Se la neuroetica viene riassorbità dalla bioetica, si riprospetta la solita storia: filosofia e scienze da una parte, morale dall’altra. Troppo grezzo assimilare il quesito a quello del rapporto tra ragione e fede?

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