“Io ne ho viste cose… che voi umani… non potreste immaginarvi. Navi da combattimento in fiamme al largo dei bastioni di Orione. E ho visto i raggi B balenare nel buio… vicino alle porte di Tannhäuser. E tutti quei momenti… andranno perduti… nel tempo… come… lacrime… nella pioggia. È tempo… di morire”. Roy Batty, Blade Runner, scena finale.
“I’ve seen things you people wouldn’t believe. Attack ships on fire off the shoulder of Orion. I watched C-beams glitter in the dark near the Tannhauser gate. All those moments will be lost in time, like tears in rain. Time to die”. Roy Batty, Blade Runner, scena finale.
La toccante scena di Blade Runner, in cui Rick Deckard assiste alla toccante agonia di Roy Batty (nell’immagine), il capo dei replicanti che aveva il compito di “ritirare” e con il quale aveva ingaggiato una feroce lotta finale, dovrebbe essere insegnato a tutti coloro che, consapevoli del loro compito (gli incoscienti non potrebbero capire), desiderano curare il prossimo.
Roy parla dei suoi ricordi di combattimento, che non è dato sapere se siano veri o “innesti”, credendo alla loro verità un attimo prima di morire, e con ciò provando compassione ed empatia verso Deckard. Roy diventa umano, trasmutandosi da replicante in uomo grazie alla consapevolezza che i suoi ricordi diventeranno “lacrime nella pioggia” e si perderanno mentre tiene in mano una colomba bianca (vi sono molti riferimenti al cristianesimo esoterico in questo capolavoro) che poi volerà via.
Ma sa anche che se Deckard lo ricorderà lui rimarrà vivo sotto altre forme, trascendendo la finitezza del suo corpo fisico. E lo lascia vivo ed attonito. Roy usa la memoria per sopravvivere alla sua morte. Deckard farà tesoro di questa esperienza e si ricongiungerà a Rachel, la replicante della quale è innamorato, portandola a fare esperienze che la possano rendere umana, il di lei desiderio più profondo.
Siamo abituati a pensare alla memoria come funzione cognitiva, ma in realtà essa è una funzione biologica che ha lo scopo di ottimizzare le nostre possibilità di sopravvivenza di fronte ad eventi traumatici (cioè eventi che mettono acutamente a repentaglio la sopravvivenza psicofisica del soggetto senza che questi possa in qualche modo controllarli).
A tutt’oggi si assiste ad una improvvida e pericolosa patologizzazione (medica e psicoterapeutica) dei ricordi di origine traumatica, perché a tutti piace ( e in molti casi torna utile) pensare che rivivere il trauma faccia in qualche modo male (senza che nessuno lo abbia mai dimostrato sino in fondo). Ci siamo dimenticati di porci una semplice domanda. Come mai, dopo centomila anni circa di esistenza dell’Homo sapiens, l’evoluzione non ha estinto la possibilità di rivivere eventi come guerre, epidemie, eruzioni vulcaniche, aggressioni, e così via?
Molto probabilmente perché le memorie traumatiche hanno la precisa funzione di proteggerci, generando in noi risposte difensive più efficienti. Ma se solo così fosse, saremmo tutti soltanto dei perfetti predatori psicopatici. Siamo invece connotati, come esseri umani, dalle capacità empatiche.
Nel soggetto normale, non ammalato o indebolito da altri fattori, la presenza di ricordi traumatici è un fattore di crescita, psicolobiologica e spirituale: dopo le near-death-experiences le persone aprono il loro organismo all’esperienza della trascendenza, e così è per i traumi, se i “pazienti” non sono afflitti da psicologi / psichiatri più o meno in buona fede (vedere Trauma & Spirituality: An International Dialogue – March 2011 – Belfast)
Il trauma ci pone di fronte, ineluttabilmente, alla apparente scelta tra mondo e Dio (Wittgenstein: Il mondo o Dio?). Se è vero, come le più recenti ricerche in tema di memoria hanno dimostrato essere, ciò che diceva Janet che “la memoria è un’azione, essenzialmente l’azione di raccontare una storia”, allora è opportuno osservare che la narrazione di memorie traumatiche implica la presenza di interlocutori, e che non si può narrare senza empatia.
Le memorie traumatiche servono, in ultima analisi, a cooperare e a crescere assieme al nostro gruppo di appartenenza, e facilitando la genesi di un sentimento che abbattendo i confini del Sè avvicina a ciò che prima vivevamo come inconoscibile. E la consapevolezza della trascendenza rispetto alla finitezza che il trauma ci impone consente di esperire il, forse, più sublime stato d’animo verso il prossimo: la “pietas”, che Roy Batty offre a Rick Deckard come il vero ricordo, e quindi il suo passaporto per l’immortalità.
Al resto penserà la colomba bianca dell’inconscio collettivo, genetico e memetico…
Ambrogio Pennati, MD
Psichiatra, psicoterapeuta, psicopatologo forense
Riferimenti:
- Christopher M: A broader view of trauma: A biopsychosocial-evolutionary view of the role of the traumatic stress response in the emergence of pathology and/or growth. Clinical Psychology Review, Volume 24, Issue 1, March 2004, Pages 75-98
- Rifkin J: La civiltà dell’empatia. La corsa verso la coscienza globale nel mondo in crisi. Milano, 2009.
- http://www.healingphilosophy.com/2008/04/roman-fortitude.html
Articoli di BrainFactor che hanno trattato in questi anni il tema della memoria…
Il presente articolo è inserito nel contesto della maratona divulgativa di BrainFactor e Società Italiana di Neurologia (SIN) “L’Agenda del cervello: un argomento al giorno” in occasione della Settimana del Cervello promossa in tutto il mondo da Dana Foundation dal 14 al 20 Marzo 2011.
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