Con l’articolo del Prof. Giorgio Cruccu, professore di Neurologia alla Sapienza Università di Roma, si apre l’ultima giornata della maratona divulgativa di BrainFactor e Società Italiana di Neurologia (SIN) per la Settimana del cervello (14 – 20 marzo) promossa da Dana Foundation, “L’Agenda del cervello: un argomento al giorno”. Oggi, Domenica 20, è dedicata al tema del Dolore.
Il dolore è l’aspetto negativo di un sistema sensitivo indispensabile alla vita, detto sistema nocicettivo, dal latino noxa e nocēre. I bambini con difetti congeniti della trasmissione o dell’elaborazione percettiva dei segnali dolorifici (analgesia congenita) vanno incontro ad una serie di lesioni di cui non si accorgono, sempre più gravi. Crescendo, possono riconoscere il pericolo attraverso l’educazione e l’esperienza, ma, senza l’allarme dato dal dolore, molte malattie possono evolvere senza che siano combattute per tempo, in una spirale che spesso conduce al decesso.
Il sistema nocicettivo è quindi necessario. Se inavvertitamente poggiamo la mano su un oggetto potenzialmente lesivo, dalla puntina da disegno alla piastra rovente, il sistema avvia la pronta retrazione dell’arto, cercando di evitare o minimizzare i danni. Se abbiamo una caviglia lussata, il sistema ci impedisce di caricarci il peso. Se sentiamo un dolore in qualche parte del corpo, andiamo dal dottore, non solo per alleviare il dolore, ma anche perché ci siamo messi in allerta e vogliamo sapere di che si tratta. In effetti il dolore è il più delle volte il primum movens del percorso diagnostico ed è utilissimo ai medici.
Come funziona il sistema nocicettivo? In tutto il corpo, sulla pelle, nei muscoli, nelle articolazioni, nelle ossa, nella maggior parte dei visceri, disponiamo di organelli detti nocicettori, che sorvegliano e rilevano le perturbazioni all’intorno, segnalando il rischio di danni. Dai nocicettori periferici i segnali vengono convogliati, attraverso i nervi, al midollo spinale.
Nel midollo spinale attivano sia azioni immediate (i riflessi di difesa), sia alcuni fasci ascendenti, che devono trasportare l’informazione al cervello. I fasci ascendenti sono di due tipi, uno più moderno ed uno più antico, nel senso che uno si è sviluppato in stadi più recenti dell’evoluzione, l’altro l’abbiamo ereditato dagli animali inferiori.
Il sistema moderno è rapido e preciso, termina su aree molto specifiche della corteccia cerebrale. Si occupa degli aspetti “sensori-discriminativi” del dolore. In altre parole ci dice “quanto e dove”: per esempio, leggera puntura sul polpastrello del dito indice. Questo tipo di percezione, detta nocicezione, non è ancora il dolore. Per avvertire quello che tutti chiamiamo “dolore”, occorre che al cervello arrivino anche i segnali trasmessi dal sistema più antico.
Questo secondo sistema è molto più lento ed impreciso e raggiunge strutture cerebrali profonde e centrali, tra cui l’insula ed il giro del cingolo, che si occupano degli aspetti “affettivo-motivazionali” del dolore. Entrambi i sistemi interagiscono con le aree corticali associative. È per questa ragione che il dolore, a parità di intensità dei segnali provenienti dalla periferia e cioè dell’effettivo rischio di danno, può essere variabilmente percepito.
La percezione del dolore è influenzata da fattori individuali stabili, come il carattere e l’educazione, e contingenti, come la preoccupazione, l’ansia o il tono dell’umore di quel momento.
Un famoso psicologo americano, quando ancora gli aerei si raggiungevano a piedi e poi si saliva sulla scaletta, aveva notato che quando un bambino inciampava e cadeva, guardava immediatamente verso la madre. Se la madre, con un sorriso, lo invitava ad affrettarsi e continuava a salire, il bambino si alzava e la raggiungeva, come se nulla fosse. Se la madre lo guardava preoccupata ed accorreva in soccorso… allora si scatenavano pianti e urla.
Ma come fa il cervello a farci sentire il dolore di più o di meno? Il cervello sensoriale riceve talmente tanti segnali, che, se dedicasse la stessa “attenzione” a tutti, non riuscirebbe più a lavorare. Deve continuamente selezionare cosa è prioritario e cosa no. Ci riesce per mezzo di un controllo discendente che filtra i segnali in ingresso, potenziandoli o attenuandoli.
Nel caso del dolore questo sistema di controllo discendente è particolarmente potente. Se ci troviamo di fronte ad un dolore nuovo, acuto, e da cui ci possiamo sottrarre (camminando a piedi nudi finiamo su un pezzo di vetro), tutti i canali devono essere aperti per promuovere rapide manovre di evitamento. Se, invece, il dolore è sempre il solito e non abbiamo manovre per sottrarci (un dente del giudizio che cresce storto), allora il nostro cervello cerca di minimizzarlo smorzando i segnali. Questo sistema di controllo discendente utilizza vari trasmettitori, tra cui l’endorfina, ovvero la nostra morfina endogena, fisiologica.
Si dirà: ma allora come mai il dolore si continua a sentire? Quanto il cervello riesce ad attenuare il dolore dipende ancora da fattori cognitivi ed emotivi. Un esempio clamoroso sono i fachiri indiani. Grazie alla fede ed al training, i fachiri riescono a modulare strutture cerebrali profonde, che per noi sono completamente irraggiungibili dalla volontà, e a rilasciare una gran quantità di endorfine, al punto di non sentire i chiodi o i tizzoni ardenti.
Anche noi possiamo aumentare i livelli di endorfine, ma non volontariamente. Sicuramente lo facciamo in condizioni estreme, di furia o di pericolo, basti pensare all’uomo che continua a rialzarsi ed andare avanti pur avendo ricevuto colpi mortali. Ma possiamo liberare le benefiche endorfine anche con metodi meno cruenti. Il metodo più semplice e vantaggioso è l’esercizio fisico.
Un atleta, alla fine di una dura competizione, non sente nulla anche se punto con uno spillo. I medici consigliano attività sportive eseguite con ritmo regolare, senza finire in debito di ossigeno, ma per una durata abbastanza protratta da farci sentire i muscoli pesanti, come dopo una nuotata lunga e lenta.
Ma il dolore, naturalmente, è innanzi tutto qualcosa che tutti noi vorremmo evitare. Seppure vantaggioso in alcune circostanze, distrugge la vita di molte persone. Stiamo parlando del dolore cronico, una condizione in cui i segnali dolorifici non sono di alcuna utilità. Anzi, oltre a produrre sofferenza limitano grandemente le capacità funzionali, le relazioni sociali e la qualità di vita in generale.
Il dolore cronico riguarda milioni di persone. Secondo le ultime stime, in Europa la prevalenza raggiunge circa il 27%, cioè ne soffre un cittadino europeo su quattro. Le condizioni che più frequentemente producono dolore cronico sono l’osteoartrosi (e le patologie della colonna vertebrale di varia origine), l’artrite reumatoide, la fribromialgia, la cefalea, il dolore neuropatico, che a sua volta include numerose malattie, come le neuropatie dolorose, l’herpes zoster (il cosiddetto “fuoco di S. Antonio”), le mielopatie traumatiche, la nevralgia trigeminale.
Sfortunatamente, secondo le metanalisi più recenti ed affidabili, meno del 50% dei pazienti, anche con le più moderne terapie, ottiene una riduzione di almeno il 50% del dolore.
Tra i pazienti “resistenti” (che cioè non ottengono un beneficio sufficiente pur avendo provato tutte le terapie del caso), alcuni riescono comunque a farsene una ragione, a barcamenarsi e a tirare aventi. Molti, però, entrano in un circolo vizioso che li conduce infine ad una grave perturbazione psicologica.
Personalmente, sono convinto che all’origine del problema stia il fatto che il dolore non si vede. Nel corso della vita possiamo incorrere in disgrazie irreparabili. Poniamo la perdita di una mano a causa di un incidente. Il soggetto vede che la mano non c’è più, sa che potrà mettere un qualche tipo di protesi, ma immediatamente capisce che la vita non sarà mai più la stessa. I suoi familiari, il datore di lavoro, i colleghi e gli amici, tutti vedono che la mano non c’è più. Tutti, incluso il diretto interessato, capiscono che dovrà cercare di riadattarsi, pur tra mille difficoltà, alla nuova condizione.
Nel caso del dolore cronico, invece, il paziente stesso fatica a capire cosa sia successo ed è preoccupato che chi lo circonda gli creda. Spiega continuamente che soffre, che sta male davvero. Fa molta fatica ad accettare il concetto di irreversibilità, ovvero che non c’è nulla da fare e bisogna riadattarsi. Continua a rivolgersi sempre a nuovi medici, specialisti di tutti i tipi, nella speranza di trovare l’esperto giusto che lo faccia tornare come prima. Si infila in una spirale di ansie (di trovare finalmente il medico giusto) e frustrazioni (perché nessuno dei nuovi tentativi funziona) che lo porta a quella condizione di grave disturbo psicologico cui, nella letteratura anglosassone, qualcuno si riferisce con l’etichetta pain behaviour, o “comportamento basato sul dolore”.
Si tratta di pazienti che restano tutto il giorno a letto, o comunque in casa, parlano solo ed esclusivamente del proprio dolore, diventano un grave peso anche per chi li circonda. È inutile provare a prescrivere farmaci sempre più forti e a dosaggi sempre maggiori. Dopo pochi giorni il paziente dirà che non fanno nulla di buono (anche se è restio a farne a meno). L’unica strategia ragionevole è l’inserimento in un programma di gestione: il paziente dovrebbe essere impegnato tutti i giorni, con un misto di “scuola” (a spiegare i meccanismi del dolore), psicoterapia, fisioterapia e movimento (possibilmente nuoto o comunque attività in acqua). In tal modo il paziente ha per lo meno alcuni vantaggi: non si sente abbandonato, deve uscire di casa tutti i giorni, ottiene beneficio dalle endorfine liberate dall’esercizio fisico e, infine, evita l’eccesso di farmaci con effetti tossici sul fegato e sedativi sul sistema nervoso.
Chiaramente bisognerebbe agire prima, per prevenire lo sviluppo di situazioni così disperate. Sia gli scienziati che l’opinione pubblica hanno negli ultimi anni preso coscienza del problema del dolore cronico, da un punto di vista etico. Con loro anche i governi e l’industria farmaceutica, per via degli enormi costi socio-sanitari del dolore cronico. Questa convergenza sinergica di motivazioni morali ed economiche ha fatto sì che la ricerca di nuove terapie per il dolore sia in continua espansione ed è quindi ragionevole attendersi che nei prossimi anni disporremo di strumenti più efficaci.
Prof. Giorgio Cruccu
Professore di Neurologia
Dipartimento di Neurologia e Psichiatria
Sapienza Università di Roma
Società Italiana di Neurologia (SIN)
Articoli di BrainFactor che hanno trattato in questi anni il tema del dolore…
Il presente articolo è inserito nel contesto della maratona divulgativa di BrainFactor e Società Italiana di Neurologia (SIN) “L’Agenda del cervello: un argomento al giorno” in occasione della Settimana del Cervello promossa in tutto il mondo da Dana Foundation dal 14 al 20 Marzo 2011.
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