Sull’invenzione della verità

Sull’invenzione della verità.Il problema della verità è uno dei cardini attorno a cui da sempre ruota la vita umana. È un problema assolutamente trasversale, che cioè trova declinazione in tutti gli ambiti relativi all’uomo, dalla più banale quotidianità al più profondo sentimento religioso, dalle relazioni interpersonali alla conoscenza. L’ampiezza e la centralità di tale tema è attestata dalle innumerevoli pagine che su di esso sono state scritte.

1. Per fortuna, il nostro tema è circoscritto alla verità scientifica. Al suo interno mi sono ritagliato il compito di ricostruire, attraverso un excursus storico, l’itinerario descritto dall’evoluzione del concetto di verità, il cui cammino segna un lento dileguare di certezze assolute [1], in sintonia con il tema “L’invenzione della verità”.

Al di fuori dell’ambito religioso, dove l’affidarsi a qualcosa di “totalmente altro”, quasi con nostalgia “assoluta” [2], implica il crederlo vero [3], il problema della verità delle conoscenze fondate sulla ragione ha una data e un luogo di nascita precisi: la Grecia tra il VII e il VI secolo prima di Cristo. È in quel preciso momento che nasce il fenomeno culturale che dà la cifra caratteristica alla cultura occidentale: la filosofia [4].

La filosofia – al di là delle singole filosofie – costituisce un atteggiamento conoscitivo: si tratta di avere fiducia nella capacità della ragione di potere spiegare – senza ricorrere a fattori mitici o religiosi, comunque trascendenti – la realtà che circonda l’uomo. Su questo punto sono stati concordi filosofi come Friedrich Nietzsche [5], scrittori saggisti come Arthur Koestler [6], scienziati come Erwin Schrödinger [7].

L’atteggiamento conoscitivo dei primi filosofi è lo stesso atteggiamento che connota gli scienziati; il tipo di sguardo rivolto al mondo è identico: meraviglia, sapere per sapere, gratuità della conoscenza [8]. Quello che va notato e messo in rilievo è che, fin dall’inizio, l’impresa della conoscenza filosofico-scientifica nasce ponendo il problema della verità. Edmund Husserl, dopo avere sottolineato che quello che si introduce con la nascita della filosofia è un nuovo atteggiamento conoscitivo, un atteggiamento “teoretico”, sostiene: «All’atteggiamento teoretico del filosofo inerisce dunque preliminarmente la decisione di dedicare costantemente la sua vita futura, la sua vita nel senso universale, alla “theoria”, a costruire gradualmente la conoscenza teoretica infinita» [9].

Da questo brano emerge l’esigenza, quando sorge il progetto di una conoscenza razionale pura, di riuscire a distinguere, nella ridda delle opinioni, la verità, la conoscenza stabile, definitiva, incontrovertibile. Ovviamente anche la verità religiosa pretende gli stessi aggettivi, ma con l’avvento della mentalità filosofico-scientifica è entrato in gioco un qualcosa che Husserl ha descritto come “il costruire gradualmente la conoscenza teoretica infinita”. La verità religiosa è data una volta per tutte; quella di ragione si conquista gradualmente (almeno nella prospettiva di Husserl, che è stata condivisa da gran parte della cultura occidentale), in un compito infinito. Quella che è nata in tal modo è la tradizione dell’acquisizione di conoscenze per via di ragione attraverso una critica incessante delle idee: per ricordare Husserl, appunto “un compito infinito”.

Anche questo tipo di conoscenza – lo si diceva – mira alla verità, e vi mira proprio per via di ragione, codificando dei canoni di valutazione di razionalità, riassumibili nel principio cardine della logica aristotelica, il principio di non contraddizione, secondo il quale le conoscenze non possono e non devono essere contraddittorie. Ecco come lo enuncia Aristotele: «è impossibile che il medesimo attributo, nel medesimo tempo, appartenga e non appartenga al medesimo oggetto e nella medesima relazione […]; appunto questo è il più saldo di tutti i princìpi, perché possiede la determinazione che noi abbiamo enunciata. È impossibile, infatti, supporre che la medesima cosa sia e non sia» [10].

Lasciando da parte il perché uno strumento (organon) come la logica di Aristotele si sia trasformato in un’ontologia (non è un caso, del resto, se le citazioni che ho proposto vengono dalla Metafisica) [11], va ribadito che questo modello (fondato anche su una visione antropologica che accorda un privilegio annichilente alla componente razionale dell’uomo) [12] è stato il modello vincente, il canone epistemologico di certificazione e verità delle imprese conoscitive per più di duemila anni. Da un punto di vista filosofico, bisognerà aspettare Hegel per mettere in luce astrattezza e formalità della logica aristotelica [13]; e non basterà nemmeno questa autorevole voce, confinata alla filosofia e inascoltata, se non dileggiata, dalla scienza [14]. Il modello logico-veritativo aristotelico resta la guida del progetto culturale filosofico-scientifico occidentale fino, quasi, ai giorni nostri.

2. Dopo questa ampia premessa facciamo un salto fino alla nascita della scienza nella forma in cui la conosciamo anche oggi, avvenuta in età moderna con la Rivoluzione Scientifica. È in questo momento storico che dobbiamo incominciare a capire che cosa c’entra l’invenzione con la verità.

Dovrebbe essere chiaro che quella di verità si presenta come un’esigenza dell’uomo, del soggetto che conosce. Ma, con un’operazione che ancora una volta si può fare risalire ai Greci, si è avviata sin dall’inizio una strategia epistemologica che avrebbe condotto a far quasi coincidere i termini verità e oggettività. La strategia epistemologica in questione è stata definita, dal già nominato Schrödinger, “postulato di oggettivazione”: «Lo scienziato nel suo subconscio, quasi inavvertitamente, semplifica il suo problema di comprendere la natura, non prendendo in considerazione o tagliando fuori dal quadro se stesso, la sua personalità, il soggetto della conoscenza. Senza rendersene conto il pensatore si limita a rappresentare la parte d’un osservatore esterno. Con ciò il suo compito è straordinariamente facilitato. […] Questo gran passo – tagliar fuori se stesso, retrocedere come uno spettatore che non ha nulla a che fare con l’esecuzione dello spettacolo – ha ricevuto altri nomi, che lo fanno sembrare innocuo, naturale, inevitabile. Lo si può chiamare semplicemente oggettivazione, considerazione del mondo come un oggetto» [15].

La scienza moderna ha fatto suo il principio di oggettivazione, si è collocata espressamente su questa linea. Se, infatti, è evidente come il postulato di oggettività abbia un autorevole riscontro filosofico nella cartesiana distinzione fra res cogitans e res extensa; se il modello di conoscenza accolto, più o meno tacitamente, è quello del rispecchiamento delle cose nell’intelletto, della adaequatio rei et intellectus; se tutto ciò è evidente, allora la vera scommessa delle scienze (o della modalità di fare scienza) che si inaugurano tra Cinquecento e Seicento è che i prodotti di tale conoscenza sono oggettivamente veri.

Per ottenere questo risultato i padri della scienza moderna, i Galilei e i Keplero, hanno compiuto una scelta “metafisica”, hanno assunto come sfondo filosofico della loro attività [16] una posizione di impronta platonica, reiterando un dualismo – questa volta non tra mondo terreno e mondo delle idee – fra la realtà complessa, storica, sfaccettata, qualitativamente differente, esperita vivendo, da una parte, e la realtà scientifica in chiave matematica, semplice, fuori dal tempo, elementare, differente solo da punto di vista quantitativo, dall’altra.

Sulla base di questa opzione di riduzione si è costruita (inventata) una (presunta) verità scientifica oggettiva, che ha pure – almeno all’inizio – l’avallo religioso. Basta pensare all’idea galileiana della matematica come linguaggio divino in cui sarebbe scritto “il libro della natura” [17]. O a quanto sostiene Keplero, affermando che «la geometria, eterna come Dio e promanante dallo spirito divino, ha fornito a Dio le immagini per plasmare l’universo, affinché questo fosse il migliore, il più bello e il più simile al creatore» [18].

Sebbene il “suggello divino” al conoscere scientifico non sia poi, con la sempre maggiore affermazione del meccanicismo nel proseguio dell’avventura della conoscenza, risultato necessario – al punto che si narra esemplarmente di come Pierre Simon de la Place rispondesse a Napoleone circa il posto di Dio nel suo quadro cosmologico: “Maestà, non ho bisogno di questa ipotesi!” [19] -, da quel momento iniziale, e per lungo tratto, rimane inalterata la fiducia, in campo scientifico, di potere ottenere verità oggettive, nel senso di definitive, eterne, sempre valide.

Quello che era stato rimosso era il presupposto, scelto, soggettivo, l’opzione per una visione del mondo, senza il quale l’idea stessa di una conoscenza vera e oggettiva, indipendente dal soggetto conoscente, non era possibile con tale evidenza ed efficacia di impatto. Del resto, in stretta prossimità cronologica con i grandi scienziati filosofi della Rivoluzione secentesca, Giambattista Vico aveva già messo in guardia, invitando, nell’ambito della conoscenza e della verità di questa, a pensare in termini, per così dire, “costruttivisti”. Come è noto, infatti, nella prospettiva del filosofo napoletano, la conoscenza certificata, vera, la si può avere solo di ciò che si è fatto [20]. Si tratta del famoso criterio del verum factum convertuntur: «il criterio e la regola del vero è l’averlo fatto» [21]. Questi temi, ad ogni modo, torneranno alla fine.

3. Il mito dell’oggettività della verità scientifica, pur sbandierato in maniera convinta per lungo tempo come insegna, comincia presto a incrinarsi. Già nell’Ottocento assistiamo a una serie di scoperte o di apertura di nuovi campi di indagine, che recano con sé l’indebolimento del sogno di una verità scientifica oggettiva nel senso che si è evidenziato prima. La scoperta di geometrie non euclidee (e conseguente crisi dei fondamenti della matematica e, aggiungo io, della scienza), l’enunciazione del Secondo Principio della Termodinamica (attraverso il quale il tempo irreversibile della storia comincia a far capolino nella fisica), la codificazione disciplinare delle scienze che si occupano del vivente e la proposta della teoria darwiniana dell’evoluzione (grazie alle quali diviene “scientifico” il nuovo, l’evento; e il tempo, la storia, diviene legge della vita), tutto ciò permette di arrivare a un fisico come Ernst Mach, il quale può permettersi di definire le teorie scientifiche mezzi per fare una sorta di economia mediante il pensiero. Scrive infatti nel 1883: «Tutta la scienza ha lo scopo di sostituire, ossia di economizzare esperienze mediante la riproduzione e l’anticipazione di fatti nel pensiero. Non occorrono riflessioni molto profonde per rendersi conto che la funzione economica della scienza coincide con la sua stessa essenza» [22].

Siamo molto lontani dalla verità oggettiva della scienza di Galilei e Newton. Quest’ultimo non era stato considerato soltanto il più bravo, ma anche il più fortunato dei fisici, perché la legge della realtà la si può scoprire solo una volta e al fisico inglese sarebbe toccato in sorte di scoprirla [23]. Con Mach si è ormai persa l’idea di una corrispondenza fra teoria e realtà. E ancora non si era avviata, proprio dentro la fisica, una sorta di svolta soggettivistica suo malgrado.

Questa svolta viene inaugurata da colui che riuscirà a “storicizzare” Newton, oltrepassandolo, superandolo: mi riferisco ad Albert Einstein e alla teoria della relatività generale [24]. Il ruolo di Einstein in quella che ho definito “svolta soggettivistica” è consegnato – ancor prima di diventare, lo scienziato tedesco, anche attraverso forzature, un mito del Novecento [25] – già dalla teoria della relatività ristretta del 1905, nella quale è presente l’idea fondamentale che ogni misurazione è fatta da un punto di vista, il punto di vista di chi osserva.

Il passo successivo, ventidue anni dopo, viene compiuto da Werner Heisenberg. Nel 1927, enunciando il celeberrimo “principio di indeterminazione” [26], le “relazioni di incertezza” fra posizione e momento della particella, il fatto cioè che sia impossibile determinare con precisione assoluta in un istante dato sia la posizione sia la velocità, ad esempio, di un elettrone; lo scienziato tedesco mette in chiaro che tutto ciò è dovuto all’atto di osservare, che perturba l’oggetto osservato: ancora una volta il soggetto è parte attiva, ingerente, nell’atto del conoscere.

La svolta soggettivistica ha una codificazione teorica nello stesso 1927, grazie a un altro grande fisico, Niels Bohr. Questi, proprio sulla scorta della scoperta di Heisenberg, prende atto che la posizione, per usare le sue parole, «di spettatori e attori a un tempo del grande dramma dell’esistenza» [27] richiede un cambiamento radicale. Di fronte a spiegazioni in contrasto di medesimi aspetti del reale – ad esempio la luce o la materia,  ora spiegata come fatta di onde ora di corpuscoli -, l’essere soggetti non esterni a ciò che osserviamo impone di abbandonare il principio aristotelico di non contraddizione: la luce si può presentare in certi casi come costituita di onde, in altre situazioni come se fosse corpuscolare, e questo non deve comportare necessariamente che una modalità di spiegazione è vera e l’altra no.

Quello che Bohr enuncia è il principio di complementarità, che «fa riferimento diretto alla nostra posizione di osservatori in un dominio di esperienza in cui l’applicazione non ambigua di concetti usati nella descrizione dei fenomeni dipende in modo essenziale dalle condizioni di osservazione» [28]. Ciò che non era riuscito a Hegel riesce a Bohr. La svolta soggettivistica si è compiuta, quindi, con la rinuncia al “dogma” aristotelico su cui si era fondata la lunga tradizione occidentale della verità filosofico-scientifica.

4. Tutti questi cambiamenti provenienti dalla fisica – la scienza esemplare del paradigma classico – non sono scivolati vanamente, per quanto tenace possa essere il sogno di una conoscenza vera (nel senso di definitiva). E ciò lo si può verificare, osservando come anche l’epistemologia, in un certo senso, tradizionale ne abbia sentito gli effetti, talvolta suo malgrado, sfumando l’oggettività della verità. Farò solo due esempi: Karl Popper e Thomas Kuhn.

Popper è il filosofo del falsificazionismo, un esempio palese di depotenziamento del metodo scientifico, non più in grado, cartesianamente, di garantire la validità delle conquiste conoscitive, ma capace di dirci con certezza definitiva solo che una teoria non funziona, è in distonia con i fatti [29]. Il filosofo austriaco si muove, in un oscillare quasi schizofrenico, all’interno di una situazione dilemmatica. Da una parte, infatti, coglie la non definitività delle idee scientifiche (ed Einstein, che “falsifica”, supera, Newton ed è pronto a sottoporsi alla prova dell’esperimento, diventa per lui il prototipo dello scienziato [30]), per cui può affermare che «il vecchio ideale scientifico dell’episteme – della conoscenza assolutamente certa, dimostrabile – si è rivelato un idolo» [31]. Ma subito dopo, dall’altra, si riaccosta al canone tradizionale, sostenendo che «l’esigenza dell’oggettività scientifica rende ineluttabile che ogni asserzione della scienza rimanga necessariamente e per sempre allo stato di tentativo» [32].

In questa prospettiva, Popper può continuare ad affermare con convinzione l’esistenza di una verità oggettiva, ma con un’avvertenza: «Lo status della verità intesa in senso oggettivo, come corrispondenza ai fatti, con il suo ruolo di principio regolativo, può paragonarsi a quello di una cima montuosa, normalmente avvolta fra le nuvole. Uno scalatore può, non solo avere difficoltà a raggiungerla, ma anche non accorgersene quando vi giunge, poiché può non riuscire a distinguere, nelle nuvole, fra la vetta principale e un picco secondario. Questo tuttavia non mette in discussione l’esistenza oggettiva della vetta; e se lo scalatore ci dice: “dubito di aver raggiunto la vera vetta”, egli riconosce, implicitamente, l’esistenza oggettiva di questa. L’idea stessa di errore, o di dubbio (nella semplice accezione usuale) comporta il concetto di una verità oggettiva, che possiamo essere incapaci di raggiungere» [33].

Popper può allora concludere con una tesi – al di là del valore che si vuole accordare alla sua filosofia della scienza – assolutamente condivisibile: «Con l’idolo della certezza […] crolla una delle linee di difesa dell’oscurantismo, che sbarrano la strada al progresso scientifico. Perché la venerazione che tributiamo a quest’idolo è d’impedimento non solo all’arditezza delle nostre questioni ma anche al rigore dei nostri controlli. La concezione sbagliata della scienza si tradisce proprio per il suo smodato desiderio di essere quella giusta. Perché non il possesso della conoscenza, della verità irrefutabile, fa l’uomo di scienza, ma la ricerca critica, persistente e inquieta, della verità» [34].

Thomas Kuhn, pur restando all’interno del quadro classico dell’epistemologia novecentesca, con la sua idea che il cammino della scienza proceda per salti rivoluzionari, di paradigma in paradigma, sfuma ulteriormente il bicromatismo radicale dell’equivalenza fra conoscenza scientifica e verità.

La tesi ben nota dell’incommensurabilità reciproca dei paradigmi scientifici – per cui, nel dibattito tra paradigmi, entra in gioco, al momento della scelta, anche una dimensione non inscrivibile in alveo razionale [35] – apre le porte a uno scenario nel quale teorie e paradigmi scientifici non costituiscono più in alcun modo un rispecchiamento di un oggetto dato e immutabile. Con Kuhn si assiste a una vera e propria svolta storicista in filosofia della scienza; per il filosofo americano, scienziati di epoche diverse non vedono le stesse cose guardando gli stessi fenomeni naturali [36]. Scrive Kuhn: «Fin dalla remota antichità molti avevano visto che un qualunque corpo pesante, appeso a una corda o a una catena, oscilla avanti e indietro fino a raggiungere alla fine uno stato di quiete. Per gli aristotelici, che credevano che un corpo pesante si muovesse per sua natura da una posizione più elevata verso uno stato di riposo naturale in una posizione più bassa, un corpo oscillante era semplicemente un corpo che cadeva con difficoltà. Vincolato dalla catena, esso poteva raggiungere lo stato di riposo nel suo punto più basso soltanto dopo un movimento tortuoso e un periodo di tempo considerevole. Galileo invece, quando guardò un corpo oscillante, vide un pendolo, ossia un corpo che quasi riusciva a ripetere lo stesso movimento più e più volte all’infinito» [37].

Kuhn arriva a sostenere: «In una maniera che sono incapace di spiegare ulteriormente, i sostenitori di paradigmi opposti praticano i loro affari in mondi differenti. L’uno contiene corpi vincolati che cadono lentamente, l’altro pendoli che ripetono il loro movimento più e più volte. […] Svolgendo le loro attività in mondi differenti, i due gruppi di scienziati vedono cose differenti quando guardano dallo stesso punto nella stessa direzione. Ciò però – vale la pena ripeterlo – non significa che essi possono vedere qualunque cosa piaccia loro. Entrambi guardano il mondo, e ciò che guardano non cambia. Ma in alcune aree essi vedono cose differenti, e le vedono in differenti relazioni tra loro» [38].

Siamo di fronte a un modo di concepire la scienza che può mettere da parte la verità oggettiva – senza rinunciare alla realtà del mondo, come abbiamo appena letto – per sostituirla con una verità storica, coerente soltanto con la cornice teorica in cui si incastona. Leggiamo la conclusione a cui arriva Kuhn: «Il processo descritto […] come soluzione delle rivoluzioni è la scelta della maniera più adatta per praticare la scienza futura, operata attraverso un conflitto che ha luogo all’interno della comunità scientifica. Il risultato complessivo di una serie di selezioni rivoluzionarie di questo genere separate da periodi di ricerca normale, è l’insieme meravigliosamente adeguato di strumenti che chiamiamo conoscenza scientifica moderna. Gli stadi successivi di questo processo di sviluppo sono contrassegnati da un incremento dell’articolazione e della specializzazione di tali strumenti. E l’intero processo può avere avuto luogo, come oggi supponiamo si sia verificato per l’evoluzione biologica, senza l’aiuto di un insieme di finalità, o di una verità scientifica stabilita una volta per tutte, della quale ciascuno stadio di sviluppo della conoscenza scientifica costituisca una copia migliore rispetto alla precedente» [39]. E così la verità oggettiva, che ancora rimaneva come ideale regolativo in Popper, si è dileguata.

5. Il cammino che abbiamo fatto fin qui ci ha allontanati sempre più dalle convinzioni dei padri della scienza moderna, e ci ha condotto a vedere un ripensamento nel modo di concepire la conoscenza e l’impresa scientifica, che tocca, soprattutto, quello che adesso, a buon diritto, possiamo definire il mito della verità oggettiva.

La scienza attuale è alla base di tale ripensamento, in piena sintonia con il cammino percorso. Essa si connota sempre più come scienza di una realtà meno semplice o semplificabile, più complessa, e sicuramente è meno dotata di certezze di quanto non fosse la prima scienza moderna. Possiamo dire, facendo compiere un altro passo a un’idea di Alexandre Koyré, che, se nel transito dal Medioevo alla Modernità si era passati “dal mondo del pressappoco all’universo della precisione” [40], adesso, dall’universo della precisione siamo arrivati a un “mondo incerto” [41]. Tale incertezza non tocca il valore dell’impresa della scienza; tocca piuttosto l’astratta (e assurda) pretesa che si possano conquistare conoscenze vere, oggettivamente vere, definitive, che non potranno mai più essere messe in discussione.

La scienza attuale è scienza di verità molteplici, perché scienza non più con una sola logica e fuori dal tempo storico; è scienza di logiche e tempi plurimi. Oggi non si può non riconoscere che la realtà è irriducibile a una sola dimensione, a modelli unitari. Oggi comprendiamo appunto come logiche diverse, molteplici e complementari, ci permettano di leggere il mondo in maniera molto più variegata e coinvolgente di quanto non sia stato possibile in passato [42].

Oggi, per dirla con Ilya Prigogine, «viviamo in un mondo pluralista, che non può essere descritto in termini di schemi onnicomprensivi» [43]. Si è infatti riconosciuto, ad esempio, che fenomeni diversi sottostanno a differenti tipi di temporalità. E così, finalmente, – sono ancora parole dello scienziato russo-belga – «gli scienziati hanno semplicemente smesso di negare ciò che, per così dire, tutti sapevano» [44]: che il tempo irreversibile della storia e della vita non è un’illusione, ma anzi è quel collante che ci permette, dalla particella elementare all’universo nella sua totalità, di condividere qualcosa che ci autorizza a parlare di “Universo di partecipazione” [45].

Nella scienza attuale non c’è più spazio, dunque, per una verità data e oggettiva; torna addirittura l’idea vichiana del legame verum-factum; torna in certe tesi in campo biologico che pongono in stretta simbiosi il conoscere e il fare [46]; torna nell’idea di Humberto Maturana e Francisco Varela di una scienza del vivente che non può comprendere il suo oggetto come distinto dalla realtà, alla quale “semplicemente” si adatterebbe. I due neurofisiologi cileni propongono una teoria che «non concepisce il conoscere come una rappresentazione del “mondo là fuori”, bensì come permanente produzione di un mondo attraverso il processo stesso del vivere» [47].

Vico aveva negato valore di verità alla scienza della natura perché la natura non era un prodotto dell’uomo [48]; Maturana e Varela ci dicono che il mondo come ci appare e nel quale viviamo è, in certa misura, un nostro prodotto. Allora, vichianamente, conoscere è fare, vivere è conoscere e quindi costruire un mondo: si tratta di un mondo vero, ma non oggettivamente e assolutamente tale; vero, storicamente, per chi lo produce, per il soggetto.

Vorrei concludere con questa considerazione: la scienza ha per lungo tempo seguito un’idea rigida e assoluta di verità [49]; adesso è essa stessa, nella sua dimensione di “conoscenza della conoscenza”, che – per seguire ancora Maturana e Varela – «ci obbliga a tenere un atteggiamento di vigilanza contro la tentazione della certezza, a riconoscere che le nostre certezze non sono prove di verità, come se il mondo che ciascuno di noi vede fosse il mondo e non un mondo» [50].

La scienza che ha compreso la debolezza di una verità rigida ed escludente, detta essa stessa una prospettiva intrisa di un’etica profonda e coinvolgente. Scrivono ancora Maturana e Varela: «Se sappiamo che il nostro mondo è sempre il mondo con cui veniamo in contatto insieme ad altri, ogni volta che ci troviamo in contraddizione od opposizione con un altro essere umano con il quale vorremmo convivere, il nostro atteggiamento non potrà essere quello di riaffermare ciò che vediamo dal nostro punto di vista, ma quello di ammettere che il nostro punto di vista è il risultato di un accoppiamento strutturale in un dominio di esperienza valido tanto quanto quello del nostro interlocutore, anche se il suo ci appare meno desiderabile» [51].

Non credo, a questo punto, che ci sia molto da aggiungere. La verità, assunta come oggettiva, mostra chiaramente oggi di essere stata un’invenzione, anzi – per dirla con von Foerster e Pörksen – «l’invenzione di un bugiardo» [52], che ha nascosto o rimosso, ad esempio, la scelta, soggettiva, di adottare il postulato di oggettività.

La scienza ci mostra come l’unica verità – a livello epistemologico e ontologico, a livello di teorie e a livello, addirittura, di esseri viventi – sia solo una verità storica, in questo senso relativa, persino legata al soggetto e all’individuo [53]: per quanto questo possa destabilizzarci, ci rende però una dimensione di libertà che colma di dignità il vivere e il conoscere per le molteplici possibilità che in essi appunto si dischiudono.

Giuseppe Giordano
Professore Associato di Storia della filosofia
Dipartimento di Filosofia
Università degli Studi di Messina

Note e bibliografia:

  1. Si potrebbe dire che, in un certo senso, la nozione di verità percorra un cammino analogo a quello della coscienza narrato da Hegel. Cfr. G. W. F. Hegel, Fenomenologia dello spirito [1807], trad. di E. De Negri, La Nuova Italia, Firenze 2001; su cui si può vedere G. Cotroneo, Il “dileguare” della prima certezza, in AA. VV., Il mondo incerto, a cura di M. Pera, Laterza, Roma – Bari 1994, pp. 5-25.
  2. L’espressione “totalmente altro” è stata coniata dallo storico delle religioni Rudolph Otto nel 1911 nel suo libro Il sacro. Per un esempio di uso filosofico-teologico cfr. M. Horckheimer, La nostalgia del totalmente altro [1970], Queriniana, Brescia 1972.
  3. Basta pensare al lapidario riferimento tacitiano di Vico nella Scienza Nuova, quando parla degli uomini che «fingunt simul creduntque» (G. Vico, Princìpi di Scienza Nuova [1744], a cura di F. Nicolini [Ricciardi, 1953], Mondadori, Milano 1992, p. 145, § 376).
  4. Su questo tema restano insuperate le pagine di E. Husserl, La crisi dell’umanità europea e la filosofia [1935], in Id., La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale [1959], prefazione di E. Paci, trad. di E. Filippini [1961], Il Saggiatore, Milano 2008, pp. 328-360.
  5. Cfr. F. Nietzsche, La filosofia nell’epoca tragica dei Greci e scritti 1870-1873, con nota introduttiva di G. Colli e M. Montinari, trad. di G. Colli, Adelphi, Milano 1992, p. 151.
  6. Koestler mette in evidenza il fatto che «in realtà le loro risposte erano molto meno importanti delle loro domande, del fatto che si mettevano a porre questioni nuove e non si rivolgevano ad un oracolo ma alla muta natura» (A. Koestler, I sonnambuli. Storia delle concezioni dell’Universo [1959], con una introduzione di G. Giorello, trad. di M. Giacometti [1982], Jaca Book, Milano 19912, p. 18).
  7. Cfr. E. Schrödinger, La natura e i Greci [1948], in Id., L’immagine del mondo, trad. di A. Verson [1963], Boringhieri, Torino 1987, p. 212.
  8. Del resto, l’unitarietà di atteggiamento emerge a una semplice constatazione, osservando cioè come per gran parte della scienza a noi oggi nota e codificata in discipline sia possibile rintracciare una sorta di prodromo filosofico: la fisica e l’atomismo di Democrito, Leucippo, Epicuro, Lucrezio, ad esempio; oppure la chimica e i “semi”, le “omeomerie” di Anassagora.
  9. E. Husserl, La crisi dell’umanità europea e la filosofia, cit., p. 344.
  10. Aristotele, Metafisica, in Id., Opere, vol. VI, trad. di A. Russo, Laterza, Roma – Bari 1982, p. 94, l. IV, 3, 1005b.
  11. Su ciò, nell’ottica anche delle svolte paradigmatiche novecentesche, rinvio a G. Gembillo, Le polilogiche della complessità. Metamorfosi della ragione da Aristotele a Morin, Le Lettere, Firenze 2008, in particolare pp. 35-43.
  12. La tradizione occidentale ha puntato tutto sul privilegio della ragione sin dalla condanna platonica della corporeità e dei sensi. Se qualche voce ha voluto anche prendere la parte del lato emozionale – penso ad esempio a Pascal, e alla sua convinzione che «il cuore ha le sue ragioni che la ragione non conosce» (B. Pascal, Pensieri, testo francese a fronte, introduzione, note e apparati di A. Bausola, trad. di A. Bausola e R. Tapella, Bompiani, Milano 2000, p. 263) – bisognerà aspettare il Novecento per vedere riflessioni che pongono sullo stesso piano gli aspetti diversi della natura umana. Penso, fra gli altri, a Benedetto Croce – di cui si può vedere, in questa prospettiva, proprio l’inizio di Filosofia della pratica. Economica ed etica [1909], a cura di M. Tarantino, con una nota al testo di G. Sasso, Bibliopolis, Napoli 1996 – e all’idea di Edgar Morin di definire l’uomo – nel volume Il paradigma perduto. Che cos’è la natura umana? [1973], trad. di E. Bongioanni [Bompiani, 1974], Feltrinelli, Milano 2001, p. 198 – sapiens-demens.
  13. Cfr. G. W. F. Hegel, Fenomenologia dello spirito, cit., in particolare la Prefazione. Quest’ultima parte del testo hegeliano è ora disponibile anche in modo indipendente, presentato come una sorta di “Discorso sul metodo” del filosofo tedesco: G. W. F. Hegel, Prefazione, a cura di G. Gembillo e D. Donato, Rubbettino, Soveria Mannelli 2006. Sulla questione mi permetto di rimandare a G. Giordano, Dimostrazione filosofica e dimostrazione matematica nella “Prefazione” alla Fenomenologia, in AA. VV., La “Fenomenologia dello spirito” dopo duecento anni, a cura di G. Cotroneo, G. Furnari Luvarà, F. Rizzo, Bibliopolis, Napoli 2008, pp. 281-310.
  14. Oggi, in maniera quasi paradossale, Hegel viene recuperato proprio da alcuni degli scienziati più consapevoli dei cambiamenti interni della scienza. Sul tema rinvio a G. Giordano, Tra Einstein ed Eddington. La filosofia degli scienziati contemporanei, Armando Siciliano, Messina 2000, in particolare il cap. VII dal titolo “La presenza di Hegel in Prigogine, Chargaff e Heisenberg”, pp. 131-157.
  15. E. Schrödinger, La natura e i Greci, cit., p. 237.
  16. Sostiene Werner Heisenberg che non c’è scienza senza un retroterra filosofico che la guidi; anzi, egli è convinto che vi siano in questa ottica solo due possibilità: o si è aristotelici, sperimentali, oppure pitagorico-platonici, cioè convinti della possibilità di ricondurre il mondo a un disegno teorico predefinito. Cfr. W. Heisenberg, Lo sfondo filosofico della fisica moderna, a cura di G. Gembillo ed E. A. Giannetto, Sellerio, Palermo 1999.
  17. G. Galilei, Il Saggiatore [1623], in Id., Opere, 2 voll., UTET, Torino 1980, I, pp. 631-632.
  18. J. Kepler, Harmonices Mundi, citato in W. Heisenberg, Natura e fisica moderna [1955], trad. di E. Casari, Garzanti, Milano 1985, p. 103.
  19. Cfr. I. Prigogine – I. Stengers, La nuova alleanza. Metamorfosi della scienza [1979], edizione italiana a cura di P. D. Napolitani [1981], Einaudi, Torino 19993, p. 53.
  20. Per la contrapposizione su questo aspetto tra scienziati della natura e umanisti rimando a G. Vico, Princìpi di Scienza Nuova, cit., p. 12, § 331.
  21. G. Vico, L’antichissima sapienza degli Italici, in Id., La scienza nuova e altri scritti, UTET, Torino 1976, p. 200. Detto a latere, proprio sull’averla fatta noi, averla inventata di sana pianta, poggerebbe, secondo Vico, la “verità” della matematica. Cfr. ivi, p. 198.
  22. E. Mach, La meccanica nel suo sviluppo storico-critico [1883; 19339], trad., introduzione e note di A. D’Elia, Boringhieri, Torino 1977, p. 470.
  23. Queste considerazioni sono attribuite al matematico torinese Luigi Lagrange. Per comprendere l’impatto che la scoperta della legge di gravitazione universale ebbe sui contemporanei di Newton, basta leggere l’epitaffio per lo scienziato scritto da Alexander Pope: «Nature and Nature’s laws lay hid in night:/ God said, let Newton be! And all was light» (citato in I. Prigogine – I. Stengers, La nuova alleanza, cit., p. 27).
  24. I principali tra i lavori scientifici, i testi divulgativi e quelli più filosofici di Einstein sono raccolti, in italiano, in A. Einstein, Opere scelte, a cura di E. Bellone, Bollati Boringhieri, Torino 1988.
  25. Si veda G. Gembillo, Da Einstein a Mandelbrot. La filosofia degli scienziati contemporanei, Le Lettere, Firenze 2009, in particolare il cap. I, “Einstein e Galilei miti del nostro tempo”, pp. 17-44.
  26. Cfr. W. Heisenberg, Sul contenuto intuitivo della cinematica e della meccanica quanto-teoriche [1927], in Id., Indeterminazione e realtà [1991], a cura di G. Gembillo e G. Gregorio, Guida, Napoli 20022, pp. 47-77.
  27. N. Bohr, Biologia e fisica atomica [1937], in Id., Teoria dell’atomo e conoscenza umana, trad. di P. Gulmanelli, Boringhieri, Torino 1961, p. 395.
  28. N. Bohr, La fisica e il problema della vita [1957], in Id., Teoria dell’atomo e conoscenza umana, cit., p. 447.
  29. Sul criterio di falsificabilità si veda K. R. Popper, Logica della scoperta scientifica [1934; 1959], premessa di G. Giorello, trad. di M. Trinchero [1970], Einaudi, Torino 1995, p. 22.
  30. Mi permetto, per quel che riguarda la questione dell’Einstein di Popper, di rinviare a G. Giordano, Albert Einstein nell’opera di Karl Popper, in “Nuova Civiltà delle Macchine”, anno XXIV (2006), n. 4, pp. 31-42, e a G. Giordano, Einstein per Popper, in AA. VV., Einstein e la relatività cento anni dopo, a cura di A. Anselmo, Armando Siciliano, Messina 2007, pp. 137-170.
  31. K. R. Popper, Logica della scoperta scientifica [1934; 1959, premessa di G. Giorello, trad. di M. Trinchero [1970], Einaudi,Torino 1995, p. 311.
  32. Ibidem.
  33. K. R. Popper, Congetture e confutazioni [1962; 1969], trad. di G. Pancaldi [1972], Il Mulino, Bologna 2000, p. 388.
  34. K. R. Popper, Logica della scoperta scientifica, cit., p. 311.
  35. Il paradigma argomenta in proprio favore in maniera circolare, sulla base dei suoi stessi presupposti (che dovrebbero essere dimostrati nell’argomentazione), e questi vengono invece accettati quasi con un atto di fede. Cfr. T. S. Kuhn, La struttura delle rivoluzioni scientifiche [1962; 1970], trad. di A. Carugo [1969; 1978], Einaudi, Torino 1999, pp. 190-191. Per una panoramica sul filosofo e storico della scienza americano rinvio a G. Giordano, Tra paradigmi e rivoluzioni. Thomas Kuhn, Rubbettino, Soveria Mannelli 1997.
  36. Per capire come Kuhn sia arrivato a queste convinzioni, si possono leggere le pagine, in chiave di ricostruzione autobiografica, in cui ricorda il momento chiave di comprensione del fatto che, ad esempio, Aristotele e Galilei, osservando la natura, hanno da risolvere problemi diversi, si pongono domande differenti. Si veda T. S. Kuhn, La tensione essenziale. Cambiamenti e continuità nella scienza [1977], trad. di M. Vadacchino, A. e G. Conte, G. Giorello, Einaudi, Torino 1985, pp. IX-X.
  37. T. S. Kuhn, La struttura delle rivoluzioni scientifiche, cit., pp. 147-148.
  38. Ivi, pp.181-182.
  39. Ivi, p. 207.
  40. Cfr. A. Koyré, Dal mondo del pressappoco all’universo della precisione [1961], introduzione e trad. di P. Zambelli [1967], Einaudi, Torino 19692.
  41. È questo il titolo di un volume collettivo che affronta, da più punti di vista, ma eminentemente filosofici, il problema: si veda AA., Il mondo incerto, cit.. Per un riscontro di questo passaggio più dal versante scientifico rinvio a AA. VV., La sfida della complessità [1985], a cura di G. Bocchi e M. Ceruti, Bruno Mondadori, Milano 2007, e a C. S. Bertuglia – F. Vaio, Complessità e modelli. Un nuovo quadro interpretativo per la modellizzazione nelle scienze della natura e della società, prefazione di D. A. Lane, Bollati Boringhieri, Torino 2011.
  42. Su questo tema rinvio al già citato G. Gembillo, Le polilogiche della complessità.
  43. I. Prigogine – I. Stengers, La nuova alleanza, cit., p. 262.
  44. Ivi, p. 274.
  45. L’espressione, del fisico John Archibald Wheeler, è ripresa in La nuova alleanza, a p. 253.
  46. Un esempio, fra i molti, è J. Piaget, Biologia e conoscenza. Saggio sui rapporti fra le regolazioni organiche e i processi cognitivi [1967], trad. di F. Bianchi Bandinelli, Einaudi, Torino 1983.
  47. H. Maturana – F. Varela, L’albero della conoscenza [1984], presentazione di M. Ceruti, trad. di G. Melone, Garzanti, Milano 1992, p. 31. Sul pensiero di Maturana rinvio a L. Nucara, Humberto Maturana, in AA. VV., Pensatori contemporanei. Studi in onore di Girolamo Cotroneo, vol. II: Epistemologi del Novecento, a cura di G. Gembillo e G. Giordano, Armando Siciliano, Messina 2004, pp. 429-484; e ad AA. VV., Conoscere è fare. Omaggio ad Humberto Maturana, a cura di G. Gembillo e L. Nucara, Armando Siciliano, Messina 2009.
  48. Cfr. G. Vico, Princìpi di Scienza Nuova, cit., p. 121, § 331.
  49. Sclerotizzandosi e rendendosi altrettanto dogmatica di quelle verità religiose in contrapposizione alle quali era sorta, con una ventata di libertà, in età moderna. Su ciò cfr. P. K. Feyerabend, Contro il metodo. Abbozzo di una teoria anarchica della conoscenza [1975], prefazione di G. Giorello, trad. di L. Sosio [1979], Feltrinelli, Milano 2002.
  50. H. Maturana – F. Varela, L’albero della conoscenza, cit., pp. 202-203.
  51. Ivi, p. 203.
  52. H. von Foerster – B. Pörksen, La verità è l’invenzione di un bugiardo. Colloqui per scettici [1998], trad. di S. Beretta, Meltemi, Roma 2001.
  53. Il teorico della “nuova retorica”, Chaïm Perelman, sostiene con forza, addirittura, che le verità umane «non costituiscono altro che le più sicure e le meglio sperimentate delle nostre opinioni» (C. Perelman, Il campo dell’argomentazione. Nuova retorica e scienze umane, trad. di E. Mattioli, Pratiche, Parma 1979, p. 70).

Il presente saggio è relativo all’intervento del Prof. Giuseppe Giordano al Simposio su “Verità e metodo scientifico” tenutosi a Matera il 7/10/2011 nel contesto delle iniziative della Settimana Internazionale della Ricerca

 

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