Corpo, ambiente, società… In che modo queste variabili complesse riescono a modulare i processi cognitivi individuali? Ne discutono nel presente contributo esclusivo per BrainFactor, alla luce della ricerca neuroscientifica a vent’anni dalla scoperta dei neuroni specchio, Fausto Caruana dell’Università di Parma e Anna M. Borghi dell’Università di Bologna, curatori dello speciale di “Sistemi Intelligenti” dedicato alla Cognizione sociale (A. XXIII, N. 2, Il Mulino 2011).
Classicamente le scienze cognitive sono nate e cresciute focalizzando l’attenzione sul funzionamento dei processi cognitivi individuali. Il modello di mente al quale gli scienziati hanno fatto riferimento è stato a lungo influenzato dalla cosiddetta “metafora del computer”, un’espressione forse un po’ caricaturale ed abusata ma che ha ben reso l’idea di una mente-software il cui studio poteva sostanzialmente fare a meno di tre elementi: il corpo, l’ambiente, la società. Da ormai una ventina di anni assistiamo ad una graduale fase di recupero di questi tre elementi, ai quali gli scienziati cognitivi guardano in maniera sempre più attenta e consapevole rispetto al passato.
L’attenzione per la più celebre di queste tre variabili, ovvero la variabile “corpo”, ha portato alla convinzione che i processi cognitivi siano radicati, funzionalmente ma anche anatomicamente, nei sistemi percettivi, motori ed emozionali, e che quindi i processi cognitivi siano in qualche modo vincolati al corpo e da esso dipendenti. In termini neurofisiologici ciò si traduce nella crescente riscoperta di funzioni cognitive supportate dalle aree sensori-motorie del cervello, ovvero da quelle aree classicamente considerate funzionali alla guida del corpo. In ambiti diversi della scienza cognitiva questa riscoperta del corpo ha contribuito allo sviluppo della robotica (es. Nolfi e Floreano, 2000), uno degli ambiti privilegiati in cui le teorie “embodied” possono essere testate e validate. Infatti, se l’attività cognitiva è determinata dal nostro sistema sensorimotorio, diventa cruciale comprendere, grazie all’ausilio di agenti artificiali il cui corpo è più o meno simile a quello umano, quali sono i vincoli e le potenzialità che un dato sistema sensorimotorio pone all’attività cognitiva. L’attenzione per la variabile “ambiente” evolve invece a partire dalle istanze della teoria ecologica, secondo la quale il cervello e il corpo di un individuo è cablato su variabili che sono tipiche dell’ambiente in cui vive. La terza variabile sopra citata, quella relativa alla “società”, ci tocca particolarmente da vicino. Infatti, proprio il nostro paese ha contribuito in maniera determinante all’affermarsi, in ambito internazionale, della dimensione intersoggettiva nello studio della mente, allorquando – ormai venti anni fa – sono stati scoperti a Parma i “neuroni mirror”, ovvero quei neuroni motori attivi durante l’esecuzione di certe azioni nonché durante l’osservazione delle stesse azioni eseguite da altri individui.
Proprio poche settimane fa Giacomo Rizzolatti, direttore del Dipartimento di Neuroscienze di Parma e del Brain Center for Social and Motor Cognition (IIT), nonché leader del team che scoprì questo meccanismo cerebrale, ha ricevuto per questa scoperta il prestigioso Premio Principe delle Asturie. In effetti, a distanza di due decadi dalla loro scoperta, è chiaro come il caso dei neuroni mirror rappresenti un evento particolarmente paradigmatico di svolta sociale nelle scienze cognitive. Il fatto che alcune cellule del nostro sistema motorio, classicamente considerate implicate nella sola esecuzione del movimento, siano anche reclutate quando, stando immobili, osserviamo qualcun altro agire, è stato uno dei principali motivi che hanno portato gli scienziati a chiedersi fino a che punto avesse senso isolare lo studio del sistema motorio dal contesto sociale. Un nuovo tipo di domande è sorto in riferimento alle funzioni del sistema motorio: lo scarso sviluppo del sistema motorio può avere, tra le sue conseguenze, anche disturbi relativi alla sfera sociale? Il funzionamento del nostro sistema motorio è potenziato, o inibito, se eseguiamo un’azione mentre qualcun altro fa la stessa cosa? L’osservazione costante di individui che eseguono particolari azioni – come lavori manuali o attività sportive – interviene nello sviluppo del sistema motorio, migliorando le nostre performance? E ancora, il processo riabilitativo nei pazienti con lesioni del sistema motorio può beneficiare della presenza di un determinato contesto intersoggettivo? È chiaro che, adottando un modello interpretativo classico votato allo studio dei processi individuali, tutte queste domande non hanno neppure ragione di essere sollevate. Infatti, stando a tale modello, le aree motorie sono primariamente funzionali all’esecuzione del movimento – quindi adibite al controllo della cinematica, alla codifica spaziale finalizzata al raggiungimento di oggetti, alla coordinazione motoria, e così via.
Alla fine dell’estate prossima si terrà ad Erice un importante convegno internazionale in occasione del ventennale dalla scoperta dei neuroni mirror, dal titolo “Mirror Neurons. New Frontiers 20 years after their discovery”. In questa occasione, gli speaker invitati, tutti scienziati di fama internazionale che hanno contribuito in maniera rilevante alla conoscenza di questo meccanismo neurale, saranno chiamati a fare un bilancio sugli sviluppi e le prospettive relative alla ricerca su questi particolari neuroni motori. Sorprendentemente, scorrendo la lista delle presentazioni previste per il convegno, spicca il fatto che i temi discussi riguardino non tanto il controllo motorio, quanto piuttosto l’empatia, l’apprendimento, il linguaggio, la comprensione delle azioni, delle emozioni e delle intenzioni altrui, ovvero fenomeni in primo luogo sociali. Indicativo è anche il fatto che il convegno verrà aperto da un grande nome delle neuroscienze, Eric Kandel, il quale terrà una presentazione dal titolo “The Social Brain”. Sebbene non ci sia dato di sapere quale sarà il tema della discussione, è già evidente dal titolo come l’attenzione per la componente sociale sia ormai un punto fermo della ricerca neuroscientifica.
Che cosa dunque è cambiato in questi (più o meno) vent’anni? Difficile fare un bilancio in poche righe. Per prima cosa, ad oggi è chiaro che il sistema motorio giochi un ruolo cruciale nella comprensione del comportamento altrui, e che quindi sia una punto chiave del “cervello sociale”, per dirla con Eric Kandel. Questo è un assunto oramai condiviso dalla gran parte degli scienziati cognitivi. L’impatto con la componente sociale nello studio del sistema motorio è stata tanto forte da portare alcuni neuroscienziati, tra cui uno dei più grandi scienziati del sistema motorio, Marc Jeannerod – purtroppo recentemente scomparso – a chiedersi se la disambiguazione tra l’azione propria e quella altrui necessitasse di un sistema aggiuntivo a quello motorio, uno “who-system”, finalizzato alla distinzione tra sé/altri, e potenzialmente alterato nei pazienti schizofrenici (Georgieff & Jeannerod, 1998).
È inoltre chiaro che l’osservazione di individui che eseguono azioni porta ad un forzato perfezionamento e apprendimento delle performance motorie, presumibilmente dovuto a fenomeni di consolidamento che entrano in gioco durante il sonno (Van Der Werf et al., 2009). Tale “potenziamento sociale” è talmente forte da condurre ad un rilevabile miglioramento del recupero riabilitativo, sia nei pazienti neurologici (Ertelt et al., 2007) che in quelli ortopedici (Bellelli et al., 2010), suggerendo l’utilità di una procedura di “mirror-riabilitazione” come integrazione alla normale pratica riabilitativa. Un altro e forse ancora più eclatante caso relativo all’introduzione della componente sociale nello studio del sistema motorio riguarda lo studio dell’autismo, i cui classici disturbi della sfera sociale potrebbero almeno in parte dipendere da un’alterata funzionalità del sistema motorio e, conseguentemente, del sistema mirror (Cattaneo et al., 2007; Rizzolatti et al., 2010). Mentre almeno una parte dei disturbi sociali dell’autismo sembra correlare con una minore attività del sistema mirror (Oberman et al., 2005) o con sue alterazioni strutturali (Hadjikhani et al., 2006; Nishitani et al., 2004), resta ancora da comprendere ancora se questo sia dovuto ad una specifica disfunzione di questo sistema, o se piuttosto sia da ricondurre ad un effetto a cascata dovuto ad un cattivo funzionamento del sistema motorio in generale, di cui il sistema mirror è parte.
Anche la psicologia cognitiva si è trovata a fare i conti con la variabile sociale, tanto che alcuni classici paradigmi psicologici, quali il paradigma relativo all’effetto Simon, sono stati indagati prestando attenzione alla dimensione intersoggettiva. Lo studio dell’attenzione, classico oggetto di indagine della psicologia dei processi cognitivi, è stato affrontato per la prima volta tenendo conto di come il contesto sociale moduli e modifichi il comportamento. A partire dalla base neurale del meccanismo mirror, si stanno sviluppando ambiti di indagine nuova: così si è diffuso l’interesse per la cosiddetta attenzione condivisa, studiata ad esempio rilevando i movimenti oculari per verificare come il nostro sguardo possa orientare l’attenzione altrui (Ricciardelli e Riggio, 2011) e addirittura come possa essere indicatore di meccanismi di affiliazione politica (Liuzza e Aglioti, 2011): così, i sostenitori di un particolare indirizzo politico mostrano la tendenza a seguire più facilmente lo sguardo del loro leader, che quello di un altro (Liuzza et al., 2011). Dall’altro lato paradigmi classici caratteristici di questo ambito di studi, come quello volto a indagare l’effetto Simon, ovvero l’effetto di corrispondenza spaziale tra la posizione di un oggetto (destra/sinistra) e la risposta motoria (destra/sinistra), sono stati trasformati introducendo la presenza di un altro nella situazione di laboratorio (Rubichi, Iani e Nicoletti, 2011). L’obiettivo è indagare i meccanismi che sottendono la nostra capacità di portare a compimento insieme agli altri dei compiti, capacità che presuppone quella di formarsi rappresentazioni condivise relative alle azioni presenti e future nostre e altrui (Sebanz, Bekkering, e Knoblich, 2006).
Un altro versante di ricerca in qualche modo inaugurato dalla scoperta delle funzioni sociali del sistema motorio riguarda le emozioni. In questo caso, l’idea che funzioni cognitive sociali potessero essere parassitarie di strutture classicamente intese per la guida del comportamento in prima persona, ha condotto ad applicare la logica sottostante il meccanismo mirror al dominio emotivo. Le stesse strutture cerebrali implicate nel provare un’emozione – con tutto il seguito di attività autonomiche e motorie ad essa correlate – entrano in gioco durante l’osservazione di altre persone che esprimono emozioni? Con quali conseguenze? Diversi risultati scientifici inducono a pensare che la comprensione sociale delle emozioni avvenga per mezzo di specifici “meccanismi mirror per le emozioni”, ovvero meccanismi che permettano di comprendere le emozioni altrui, non appena le stesse emozioni vengono espresse da un altro individuo, mediante il reclutamento diretto dei centri corticali attivi durante l’esperienza soggettiva delle stesse emozioni (Caruana e Gallese, 2011a,b; Gallese 2001; Gallese et al., 2004; Rizzolatti e Sinigaglia 2006). Questo effetto è stato individuato nel caso del disgusto (Wicker et al., 2003; Jabbi et al., 2007), del dolore (Singer et al., 2004; 2006), delle sensazioni tattili (Keysers et al., 2004; Ebish et al., 2008), del sorridere (Hennenlotter et al., 2005), ma è chiaro che la lista è destinata ad aumentare. Un dato molto interessante riguarda il fatto che alcuni di questi studi descrivono una correlazione positiva tra il grado di attivazione del sistema mirror emozionale, in determinati soggetti, e il punteggio ottenuto dagli stessi soggetti nei test psicologici di valutazione dell’empatia (Jabbi et al., 2007; Singer et al. 2006).
È dunque possibile potenziare, o inibire, le doti empatiche di un individuo intervenendo sul potenziamento, o l’inibizione, delle strutture emozionali? È ancora prematuro provare a rispondere a queste domande. I tempi di una possibile risposta potrebbero dipendere dall’eventuale scoperta delle basi molecolari di questo meccanismo. Perché ciò avvenga, è necessario che questo meccanismo, la cui esistenza è ad oggi testimoniata nell’uomo e nella scimmia, venga studiato anche in modelli animali, quali il topo, in cui è più facile approcciare lo studio da un punto di vista molecolare. Alcune interessanti scoperte in questa direzione sembrano già essere presenti (Jeon et al., 2010, Langford et al., 2006), sebbene anche qui la strada della ricerca sia lunga.
Un altro ambito di ricerca che, pur non essendo ancora stato profondamente trasformato dal crescente interesse per la dimensione intersoggettiva, a nostro avviso cambierà negli anni a venire, riguarda le cosiddette “affordance”. Le affordance emergono dall’interazione tra organismo e ambiente, da quelle caratteristiche degli oggetti che ci invitano ad agire attivando una risposta motoria, come ad esempio i manici delle tazze, o i pulsanti del bancomat. Diversi studi, di brain imaging e comportamentali, hanno suggerito che osservare un oggetto porta a simulare mentalmente la possibile interazione con esso; la base neurale di questo processo sembra essere il sistema dei neuroni canonici (Murata et al., 1997; Raos et al, 1996). Se fino ad ora lo studio delle affordance è stato affrontato indagando prevalentemente la relazione tra un individuo ed un oggetto, ora si comincia da un lato a segnalare gli aspetti convenzionali e culturalmente dipendenti delle affordances (un cavatappi invita chi ne conosce la funzione a compiere un dato movimento, mentre offre affordance differenti a chi non conosce quel particolare oggetto; una forchetta attiva una risposta motoria automatica in chi fa parte della cultura occidentale ma non altrettanto in un asiatico), dall’altro a studiare le “affordance sociali” mostrando ad esempio come la presenza di un altro individuo possa influenzare l’individuazione delle affordances (Borghi et al, 2011).
In questo quadro il meccanismo mirror sembra giocare un ruolo determinante: alcuni risultati recenti indicano non solo che gli oggetti collocati nel nostro spazio raggiungibile evocano una risposta motoria, ma che questo accade anche quando osserviamo oggetti distanti dal nostro corpo ma presenti nello spazio di raggiungimento di altri individui (Sinigaglia e Costantini, 2011). Il sistema dei neuroni canonici e dei neuroni mirror potrebbero essere alla base anche della comprensione di concetti “istituzionali” come quello della proprietà. Così, per comprendere cosa è “nostro” o “di altri” si ri-attiverebbero i sistemi percettivi e motori relativi all’interazione fisica e spaziale con determinati oggetti: ad esempio, potremmo intendere come “nostro” un oggetto situato nel nostro spazio peripersonale, o un oggetto che tocchiamo per prima o più a lungo rispetto ad altri (Tummolini e Castelfranchi, 2011).
A differenza che in altri ambiti, l’importanza della dimensione sociale non è mai stata trascurata nello studio del linguaggio. Tuttavia, è tipico della ricerca recente mettere in luce le strette interrelazioni tra corpo, ambiente e società; diverse evidenze comportamentali e neurali hanno dimostrato che il linguaggio si fonda sull’attivazione dei sistemi percettivi, motori ed emozionali (Barsalou, 2008; Fischer e Zwaan, 2008; Gallese, 2008; Jirak et al., 2010). In questo quadro, da un lato sono proliferate le ricerche recenti che mostrano la stretta interrelazione tra affordance e linguaggio: se comprendere il linguaggio implica attivare il sistema sensorimotorio, allora le affordance degli oggetti verranno attivate non solo mentre si osservano o si interagisce con oggetti, ma anche mentre si parla, si ascolta o si leggono parole riferite ad oggetti (Borghi & Riggio, 2009; Glenberg & Robertson, 2000; Tucker & Ellis, 2004). E se quando si legge, si ascolta o si pronuncia la parola “bottiglia” si attivano le affordance dell’oggetto corrispondente, che cosa accade quando le stesse attività vengono riferite al termine “verità”?
Tra le principali sfide che la ricerca futura dovrà affrontare vi è quella di spiegare come vengano rappresentati i concetti e le parole astratti, come ad esempio quello di “verità”, quello di ”libertà”, e così via (Dove, 2010; Glenberg et al., 2008; Pecher et al., 2011). A questo proposito sono di particolare interesse alcune recenti proposte (si veda il numero speciale a cura di Borghi e Pecher, Frontiers in Cognition) che indicano che, laddove sia le parole concrete che quelle astratte attivano il circuito sensoriale e motorio, le parole astratte rimandano più delle concrete ad esperienze emotive (Kousta et al., 2009) e ad altre parole. Così, si profila la possibilità che l’esperienza socio-emozionale possa avere un ruolo fondamentale sempre, ma in particolare per la rappresentazione delle parole astratte. Conseguentemente, se la parola “bottiglia” rimanda ad un insieme di oggetti simili accomunato dalle caratteristiche percettive e dalle risposte motorie che essa evoca, la parola “fantasia” richiama esperienze così differenti tra loro che il fatto di denominarle con un’unica parola aiuta a tenerle assieme; inoltre è facile che qualcuno ci abbia spiegato il significato del termine e che per questo, quando lo usiamo, riattiviamo questa esperienza, linguistica e sociale (Borghi, Flumini et al, 2011; Scorolli et al, 2011).
Se la cognizione è influenzata dall’ambiente, e se l’ambiente in cui vive la specie umana è un ambiente sociale, allora l’attività cognitiva sarà intrinsecamente sociale. Questo ragionamento, già sotteso alle proposte che evidenziano il ruolo del linguaggio e della socialità per la rappresentazione delle parole astratte, e sicuramente stimolato dalla ricerca sui neuroni mirror, è implicito in un filone di studi recente che si interessa dello sviluppo del linguaggio. L’idea di fondo è quella di recuperare il pensiero già espresso da Vygotsky (1978) secondo il quale la cognizione è frutto dell’internazionalizzazione di interazioni sociali mediata dal linguaggio (Mirolli e Parisi, 2011). Accanto allo studio dei meccanismi sottostanti la comprensione e produzione del linguaggio ed il suo sviluppo, un interessante filone di ricerca, motivato dalle scoperte sui neuroni mirror, riguarda l’evoluzione del linguaggio. I ricercatori hanno individuato nella gestualità il precursore del linguaggio umano, sviluppando l’idea che il carattere intrinsecamente sociale dei gesti sia stato trasferito al linguaggio (Ferri et al., 2011). In questo quadro, Gentilucci e Corballis, (2006) hanno proposto che la transizione dal sistema gestuale a quello verbale sia stata resa possibile, insieme ai neuroni mirror, da neuroni della corteccia premotoria che si attivano congiuntamente per gesti della mano e della bocca (Rizzolatti et al, 1988). Da notare l’interessante sinergia tra questi studi sull’evoluzione del linguaggio e le ricerche condotte sulla dinamica del linguaggio (Loreto e Tria, 2011), ambito in cui tramite modelli computazionali si indaga proprio come emerga un linguaggio comune a partire da interazioni tra individui (Puglisi et al, 2008).
Oltre a far uso del metodo sperimentale, un interessante modo per studiare il ruolo della socialità per la cognizione consiste infatti nell’avvalersi di modelli computazionali, in cui si simulano popolazioni di robot che vivono, evolvono e apprendono in uno stesso ambiente, interagendo tra loro tramite il linguaggio o senza il linguaggio (Mirolli e Parisi, 2011; Cangelosi e Riga, 2006), o in cui si simula il sistema neurale di un robot, dotato di un sistema di neuroni canonici e di neuroni mirror (Caligiore et al, 2011). Occore notare che la socialità è stata ed è un oggetto di indagine privilegiato per alcuni approcci computazionali: ad esempio l’approccio della swarm robotics si è occupato di processi collettivi di colonie di organismi semplici, come gli insetti sociali. La sfida ora consiste nel modellare la socialità di organismi più complessi, dotati di un sistema neurale, attraverso un nuovo approccio, quello della swarm cognition (Trianni e Tuci, 2011), o invece di studiare con simulazioni ad agenti comportamenti sociali complessi, ad esempio indagare il ruolo della punizione nel raggiungimento e mantenimento della cooperazione tra individui (Andrighetto et al, 2011).
Concludendo, quale bilancio? Stando al breve schizzo qui proposto è evidente che il nucleo di concetti fioriti dalla scoperta di una continuità fisiologica tra sé ed altri – paradigmaticamente esemplificato dalla scoperta dei neuroni mirror – e, più in generale, la consapevole introduzione della componente sociale nello studio della mente, ha costretto la maggior parte delle discipline afferenti al dominio delle scienze cognitive ad un ripensamento. Nell’arco di pochi anni questa ventata di rinnovamento ha coinvolto neuroscienze, psicologia cognitiva, linguistica, robotica, etologia, fino a raggiungere discipline poste alla periferia delle scienze cognitive, quali la psicologia clinica, la psichiatria (Rossi Monti, 2011) o la fisiologia dello stress (Sgoifo, 2011). In ambito internazionale si assiste ad una proliferazione di riviste di scienze cognitive interamente focalizzate sull’aspetto sociale, mentre nei convegni internazionali è sempre più frequente imbattersi in interi settori espositivi dedicati alla “social cognition”, alla “social neuroscience”, o alla “affective neuroscience”. Comprendere come l’elemento sociale possa cambiare un determinato campo di ricerca può rappresentare un interessante esercizio intellettuale, un’opportunità per studiare e comprendere meglio la mente, ma anche uno spunto di riflessione filosofica. Tutto sommato, la prima osservazione data circa IV secolo a.C.: “anthropos physei politikon zoon”.
Fausto Caruana
Brain Center for Social and Motor Cognition,
Italian Institute of Technology,
Via Volturno 39, 43100 Parma
Dipartimento di Neuroscienze, Università di Parma
Via Volturno 39, 43100 Parma
fausto.caruana@iit.it; fausto.caruana@unipr.it
Anna M. Borghi
Dipartimento di Psicologia, Università di Bologna
Viale Berti Pichat 5, 40127 Bologna
Istituto di Scienze e Tecnologie della Cognizione, CNR, Roma
annamaria.borghi@unibo.it; anna.borghi@istc.cnr.it
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