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Forse siamo in presenza di una digitalizzazione dell’esistenza. Quella che ci porta a distinguere nettamente fra il bene e il male. 0/1: o c’è la salute o siamo malati, dunque da curare. Non accettiamo più di confrontarci con le sfumature dell’esperienza vitale. E allora deleghiamo prontamente allo specialista di turno, esperto di parcellizzazione, così del corpo come dell’anima. Oggi una diagnosi non si nega a nessuno. E nemmeno una terapia.

Non abbiamo più la necessità o la curiosità per l’esperienza umana piena, dinamica, espansiva della vita come questa si presenta. E’ come se andassimo restringendo sempre più il nostro campo di coscienza. Ci autoriduciamo in uno spazio angusto (ma sicuro) per paura di affrontare la fluidità analogica, imprevedibile come il caos non deterministico, quello che un tempo si chiamava ignoto. E a chi si sente soffocato da tale quotidiana condizione non restano che le droghe o l’alcol per fare un salto in una dimensione di coscienza altra. Altro che ribellione, triste conferma del sistema in cui si è ingabbiati. Sempre di assunto dicotomico si tratta: o di qua o di là, per poi tornare di qua, a comando.

Come a comando si pretende di far sparire quella sensazione che chiamano depressione, o quell’altra che ci sta sempre accanto che chiamano ansia, o tutte le emozioni non gradite, poco digeribili da stomaci raffinati. Non possiamo più permetterci di andare in letargo. Le nostre curve non devono mai scendere sotto l’asse delle x. Un cenno di tristezza ed è già depressione. Si moltiplicano esponenzialmente i segnali d’allarme. L’indisponibilità degli umani a fare esperienza dell’umano, in tutta la sua ricchezza, nel bene come nel male, è radicale. Il sotto non esiste proprio e il meno va azzerato, prevenuto scientemente. Proprio come ha fatto quella star di Hollywood [1], che si è amputata ritualmente una parte importante di sé nella convinzione di avere così neutralizzato e per sempre una probabilità statistica.

Lo sciamano che sa “viaggiare fra i mondi”, trasformandosi, lo si va a vedere da turisti, oggi. E la costruzione del futuro insieme è utopia da matti. L’analogico deve sparire dalla circolazione, come il tubo catodico, le valvole, le onde corte, il vinile… Prelibatezze da collezionisti e intenditori, per chi ha orecchio fino. Roba d’altri tempi, ingombro bell’e buono, per i più. Abbiamo sviluppato opportunamente il resto da noi, intensificandone i colori, moltiplicandone le funzioni. Respingendo progressivamente dal nostro interno le emozioni, che ci accontentiamo di appiccicare con un punto e virgola ammiccante sull’apparecchio. Spento, non siamo più nulla di immediatamente comprensibile a noi stessi.

Abbiamo esternalizzato l’esperienza, buttato fuori da noi i diversi colori dell’esistenza. Circondati da un mondo di colori, a noi, dentro, resta il bianco e nero. E come tali agiamo: o si sta bene o si sta male. Non c’è via di mezzo. Perché è la fluidità delle emozioni a spaventarci. Quando la prima volta appare, fa dire: “sono ben strana”; o porta a chiedersi: “che cosa c’è che non va in me?” Non siamo più disposti a imparare, con tutto il tempo che ci vuole, ad autoregolarci. La difficoltà di reggere le emozioni per come vengono su da dentro è reale, per molti. Allora meglio abdicare, corpo e anima. Meglio lasciare il controllo di sé ad altri-funzione. In assenza di una prospettiva sociale, di un agire collettivo in cui far confluire l’individuale, si resta estranei a noi stessi e basta. Qualcun altro saprà come “sistemarci”.

Forse ci facciamo paura. Dobbiamo in qualche modo neutralizzare quello che abbiamo in noi di più autentico. Preferiamo mille volte la posizione astratta del codice binario, che difficilmente può spiegare (e riprodurre) la complessità dell’umano, che si teme. Meglio lasciar perdere certi luoghi oscuri della coscienza. Meglio non familiarizzare troppo con quella parte che sembra muoverci a nostra insaputa. Al proposito, ci si chiede: dove sta la nostra responsabilità su quello che “ci accade”? Allora meglio mettere le cose in chiaro e dimostrare con evidenza “oggettiva” di non esserne responsabili per niente. Non reggiamo più il confronto con la libertà dello spirito, con la libertà di noi stessi in genere.

Perché “la libertà, nella pratica, è responsabilità” [2]. Viene buona allora finanche la risonanza magnetica per certificare che non è colpa nostra di niente. E se nemmeno le decisioni che pensavamo razionali sono più in nostro completo potere… Questo fa tirare un respiro di sollievo a una specie che si è già pentita di essersi un tempo ribellata a un Dio presciente, cercando di fare da sé. E oggi sente di avere bisogno di affidarsi a una nuova trascendenza, una divinità più a portata di mano (e di intelletto), per alleggerirsi dal peso di vivere. Quello che chiamano scienza ci aiuta molto in questo processo di estraniazione.

Non ci si riconosce più. Terrorizzati dal perdere il controllo, alla fine cediamo il timone della nave. Per non rischiare di soffrire un poco, facendo da noi.

Marco Mozzoni

Teriantropia di Marco Mozzoni 2013

Nell’immagine: “Teriantropia”, Marco Mozzoni © 2013

Note:

[1] Angelina Jolie
[2] Eugenio Finardi

BRAINFACTOR – Tutti i diritti riservati per testi e immagini – Copyright © 2013

Featured image credits: Shutterstock

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Marco Mozzoni
Direttore Responsabile

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