Daydreaming e Mind Wandering: del perché, senza perdersi, è importante sognare a occhi aperti

Pillola rossa: resti nel paese delle meraviglie,
e vedrai quant’è profonda
la tana del Bianconiglio.
Ti sto offrendo solo la verità, ricordalo.
Niente di più.
(…)
Hai mai fatto un sogno
tanto realistico da sembrarti vero?

(dal film “Matrix”)

Come scriveva notoriamente Shakespeare, “siamo fatti della sostanza dei sogni” – e noi siamo sognatori senza sosta. E lo siamo in una molteplicità di modi, spesso trascurati.

L’attività onirica mentre dormiamo è un’esperienza cui tutti siamo abituati e che diamo per scontata. Ma se consideriamo il sonno e la veglia come un processo che si svolge lungo un continuum, non possiamo non prestare attenzione alla nostra capacità di astrarci da quello che è il reale, per rifugiarci in altri luoghi.

Perché si fa? Perché i bambini giocano immaginando scenari, elaborandoli, imparando a muoversi in essi, proiettandosi? Ed è una dinamica, tendere con la proiezione verso il domani, che continua anche da adulti, mentre si è assorti, persi, disconnessi dal qui-e-ora.

Viene da riflettere sulle varie strade che conducono a un Altrove dove vi è una scissione dall’ambiente e dal contesto circostanti – ci sono numerosi esempi che si possono citare.

Come lo “stato di flow” (Csikszentmihalyi M., 1975), concetto squisito che oggi è assai trattato, riscoperto e magnificato – quell’andare nel “flusso”, talmente un tutt’uno armonico con ciò che si sta facendo, da creare una sorta di fusione con esso, una trascendenza dallo spazio-tempo, che può dare sensazioni di pieno benessere.

Delle volte, invece, più banalmente, capita di essere “sovrappensiero”. O succede di ritornare con tale forza sempre sulle medesime idee, da cadere in un loop che inghiotte. O di compiere un’azione complessa come guidare verso casa, concentrati su altro (il che è assai rischioso e non di rado provoca incidenti stradali).

Magari, visualizziamo ciò che dovremo fare mentre ci prepariamo al mattino, ripassiamo interiormente un discorso importante dalla sera prima, tinteggiando le possibili reazioni altrui, architettiamo il nostro vissuto – di ieri, adesso, e persino di domani, sfruttando tutte le capacità creative della memoria, anche quella del futuro, finendo per ricordare con vividezza, magari ingannandoci sull’oggettività dei dettagli.

O, per spingersi su altri lidi, si potrebbero sperimentare episodi ipnagogici o ipnopompici, nelle soglie crepuscolari tra la veglia e Morfeo – e ritorno.

Per cui, possiamo a questo punto, in un certo senso, asserire che il nostro giorno è cosparso di attimi di “distrazione” che potremmo considerare sfumature di alterazione di coscienza? E in tale ottica, il sognare ad occhi aperti – in inglese “Daydreaming” – dove si colloca?

Vi è persino la definizione di “Maladaptive Daydreaming Disorder” (“disturbo da fantasia compulsiva”), e nel termine “maladaptive” c’è tutta la sua essenza: un fantasticare continuo, che perde ogni funzionalità, fuoriesce da quella viene definita norma, e diviene talmente invadente e disturbante da interferire col quotidiano, nei suoi vari aspetti, con una conseguente compromissione personale, lavorativa e sociale (anche per il minor funzionamento della memoria e delle funzioni esecutive, per esempio, impiegate non correttamente).

Percepito sovente come meccanismo di coping a eventi traumatici, esso si presenta con più frequenza in persone che soffrono di depressione, ansia e disturbo ossessivo compulsivo. Ma si tratta di un caso estremo e negativo, mentre il tema, qui, vorrebbe essere altro.

In primis, per essere precisi, bisognerebbe introdurre un altro termine, ossia Mind Wandering (MW), la “mente errante”; quest’ultimo e il Daydreaming vengono per lo più usati come sinonimi (tendenza che manterremo anche nelle nostre righe), per quanto in realtà le definizioni tra i due possano lievemente divergere, tra l’altro in maniera non univoca. In generale, ci si riferisce al Daydreaming come attività più intensa, più strutturata nel copione, nella visione e come esperienza, laddove il Mind Wandering è più legato a un costante scivolare in varie direzioni, un girovagare (pur essendo confine quasi impalpabile).

Il vocabolo “errante”, ben calza: la mente è una viandante, è cosa nota – viaggiatrice instancabile, senza dubbio. Tanto che negli anni si sono diffuse tecniche di meditazione, da quelle più antiche alla nota “mindfulness”, che aiutano a rallentare il moto irrefrenabile che avviene in noi, per soffermarsi nel momento.

Ma quando l’inabissarsi nei fondali nascosti si fa così articolato da costruire sceneggiatura e scenografia, di cui si è attori, cosa ci racconta di noi? Dove ci spinge? O, meglio: dove ci spingiamo noi stessi? E per quale motivo?

Proviamo a considerare per una volta un fenomeno che, pur rivelandosi spesso disfunzionale, ha aspetti positivi e utili che non vanno dimenticati – vediamone alcuni.

Il bisogno di nascondersi un poco

Il rifugiarsi lontano dal distress quotidiano è un moto a luogo sano e inevitabile, se contenuto e non dirompe nell’esistenza. È un meccanismo che permette, soprattutto nei più giovani, di rendere la noia un materiale che plasma stimoli, una sperimentazione dei propri panorami reconditi.

Interessante notare che se ciò aiuta in molti casi a prendere la distanza da situazioni non gradevoli, per respirare un poco, dall’altra parte paradossalmente, come mostra una ricerca di qualche anno or sono (Killingsworth M. A., Gilbert D. T., 2010), le sensazioni che derivano da questa “fuga” sono sovente spiacevoli, il che pare rendere tale attività, che gli studiosi hanno stimato occupare ben quasi la metà del giorno, controproducente; l’ipotesi per spiegare ciò è che lasciare la mente “vagare” (sua condizione naturale), distraendosi da quel che si fa, rende l’assenza di un percorso di concentrazione stabile e finalizzato insoddisfacente, un non-realizzare (il vagare è un viaggio, ma senza destinazione, almeno nel senso classico). Sono congetture derivanti dai dati, ma intriganti per il paradosso che contengono, almeno nella singola trattazione.

Per contro, è noto che il vagabondaggio mentale sia assolutamente d’aiuto in presenza di compiti ripetitivi e tediosi, consentendo un arricchimento e un allenamento dell’immaginario e della cognizione che può sollevare da condizioni di routine negative per il funzionamento cerebrale.

Soprattutto di fronte a notevole stress, la valenza in un certo senso “salvifica” del Daydreaming è appurata, e diviene segnale di una realtà non appagante, se non addirittura dolorosa (al punto da non tollerare il permanere nel reale).

Non a caso, chi ha possibilità di confrontarsi con connessioni sociali e contesti positivi è molto meno propenso allo sperdersi (Crosswell A. D. et al. 2020), mentre esso è più presente in soggetti che esperiscono solitudine, ansia e lieve depressione.

Importante notare come “la mente errante” dia dimostrazione di quello che viene definito “disaccoppiamento percettivo”, che è caratterizzato dalla capacità di distaccare attenzione e percezione, mostrando doti cerebrali sottovalutate.

La certezza che resta inconfutabile è che il limite che separa i vissuti fantastici, facendoli scorrere dal funzionale l patologico, ossia “maladaptive”, può essere labile, soprattutto valutando che vanno tenute in conto le circostanze oggettive, il tipo di personalità, la cronicità della situazione e la difficoltà di studiare fenomeni così intrinseci: sfumature di (controverso) sognare.

Progetti architettonici di futuro (coi suoi ricordi): prove sul palco

Ecco di nuovo i bimbi che giocano: il gioco come esercizio, come fantasia slanciata verso la realizzazione di romanzi improbabili che, nel crescere, si dirottano sempre più verso mete fattibili che si sognano con la volontà di realizzarle.

La comprensione di me, dell’altro-da-me, del sociale in cui imparo a navigare, cercando e forgiando la mia parte nel tutto, trova nell’attività inventiva una propulsione necessaria. E questa abilità di introspezione, di fantasticare, per quanto smussata dall’avanzare dell’età e pur perdendo parte dell’ampiezza che ha nell’infanzia, resta in noi, per fortuna persino in tarda età.

E c’è un’altra riflessione da considerare, a proposito: sempre, quando parliamo di ricordi, ci riferiamo a quello che già è stato. Ma se fosse, nell’illusorietà del tempo medesimo, più complesso di così?

Già più di un decennio fa lo psicologo Daniel Schachter, dell’Università di Harvard, aveva approfondito un punto di vista affascinante, ossia come la memoria autobiografica, che si rifà al nostro vissuto, potrebbe essere importante per il nostro futuro. Il ruolo di ciò che è stato, nel modo in cui è stato immagazzinato, si tramuta in uno strumento per forgiare figurazioni, stimare e decidere ciò che sarà, dando una prospettiva, imparando da quel che è remoto (stando attenti a non indugiare in esso). Il gioco costante dei bimbi cresciuti, appunto.

Invero, in un’ulteriore ricerca (Baird B. et al., 2016) si è sottolineato come il Mind Wandering sia primariamente orientato al futuro, orientato allo scopo – sembra che l’autobiographical planning, la pianificazione legata alla propria vita, sia una sua funzione primaria, ricollegando il filo della temporalità; come non di rado accade, è ciò che fuoriesce dalla norma (e quindi, in questo caso, una lesione) a insegnarci il funzionamento.

Infatti gli autori della disanima citano come si siano osservati casi in cui danni cerebrali che hanno impattato la memoria autobiografica abbiano anche causato difficoltà e deficit nel pensare il futuro; le neuroimaging mostrano una sovrapposizione in termini di attivazione cerebrale quando gli individui ripensano ai loro trascorsi e visualizzano esperienze ancora da vivere. L’insieme di dati suggerisce che il Daydreaming è “supportato da una cooperazione tra il sistema di memoria autobiografica (per quel che concerne il contenuto) e i processi di controllo esecutivo (che permette il caricamento e la coordinazione delle informazioni)” (Smallwood J. et al., 2011).

Del resto, ogni iniziativa umana, seppur piccola, parte dall’intenzione, che implica una progettualità, una volontà, una sequenza e un fine. Nulla entra in manifestazione, senza la spinta di un’intenzione.

Là dove si è flessibili: la creatività e il problem solving

E vi è un campo, anzi due, nel quale il non-essere-qui è terreno fertile per la vita: la creatività e il Problem Solving, tra loro strettamente connessi.

In uno dei molteplici studi a proposito si è vista l’analogia tra il MW e il pensiero creativo (Fox K. C. R., Beaty R. E., 2019); in un altro emerge come il MW faciliti l’incubazione della creatività, soprattutto per il suo magnificare la flessibilità cognitiva, creando però una tendenza e peggiorare l’umore (Yamaoka A., 2019).

Il Daydreaming è considerato come un potenziale fattore favorente i processi della creatività, laddove vi è però da considerare la “qualità” del sognare ad occhi aperti: infatti la correlazione vantaggiosa risulta quella in cui vi è il così detto positive-constructive-daydreaming (PCD), che è definito da un vissuto immaginifico orientato esclusivamente al futuro e al Problem Solving (Li Y. et al. 2022).

È indubbio che l’esplorazione di orizzonti alternativi, ripiegati verso il Self e discostati dalla percezione, sia un gesto di apertura necessario allo scorrere dell’attività artistica: è l’indugiare nell’oltre invisibile ai molti, per dare forma all’inventiva attingendo da quel profondo che è resistente alla luce netta e artificiale della quotidianità.

E, nella creatività, volendo semplificare, si trova un notevole alleato del Problem Solving.

Il pensiero svincolato, sul confine tra consapevole e inconsapevole, oltre a coltivare l’introspezione, crea ponti tra idee e concetti apparentemente slegati, crea associazioni, maneggia informazioni in un modo originale che può poi essere applicato alla vita per la soluzione di ogni forma di compito – nuove prospettive in perpetuo divenire.

In effetti, ogni artista è nel famoso Altrove – se no, non potrebbe farcelo conoscere, l’Altrove.
Però basta lasciargli un messaggio; lo ascolterà, e se lo porterà nel prossimo Grand Tour di creazione.
Ma non è necessario avere particolari doni o talenti, per trarre giovamento dal fare arte partendo da una condizione di dissociazione dal percepito; basti pensare a come il semplice atto di colorare un Mandala (che, a essere onesti, atto semplice non è) sia un portale spalancato su di uno stato di assorbimento, di meditazione, quasi di trance, che nasce da forme antiche e archetipi.

E in questo rapido scivolo di osservazioni, quasi ci si scorda di un protagonista che è presente anche quando innominato: il Default Mode Network.

Sul Default Mode Network

Il protagonista in questione è il Default Mode Network (DMN), di cui si disquisisce molto nel ventunesimo secolo.

Come ben definito in una review che copre il percorso di conoscenza che si è fatto sullo stesso negli ultimi decenni (Menon V., 2023), il DMN è un insieme di aree cerebrali distribuite e interconnesse che si attiva in momenti in cui non si è focalizzati su stimoli esterni, essendo quindi concentrati sull’ “interiore”, in processi che sono appunto collegati al Daydreaming, al MW, al visualizzare il futuro, al richiamo di esperienze trascorse – un network che lavora in condizioni di veglia “rilassata”, ma nell’introspezione.

Nella breve storia che inizia con la sua “scoperta”, la sua disfunzione è stata associata a morbo di Alzheimer e a numerose malattie psichiatriche e, in seguito, ci si è concentrati sul suo essere risorsa. Per quanto molto sia da scoprire, tale rete è composta da aree sia corticali che sottocorticali, tra cui la corteccia prefrontale e la corteccia cingolata posteriore; in parte ancora misteriosa, la sua identità potrebbe essere rappresentata non da “un singolo sistema omogeneo”, ma da un insieme di “sub-reti che svolgono differenti funzioni cognitive”.

Leggendo questa approfondita revisione scientifica emerge come, sfruttando la fMRI, negli anni si sia voluto tentare di valutare il suo impatto sulla cognizione; quel che risulta, con tutte le difficoltà di sondare il DMN, esso sembra essere implicato nei giudizi sul sé e appare avere un ruolo di rilievo sulla competenza sociale (ragionando di sé stessi tra gli altri, e facendo inferenze a proposito di significati e dinamiche). In più è parte coinvolta nelle operazioni che riguardano la memoria episodica legate a dettagli dei trascorsi personali (la “soggettività del ricordare”); il DMN pare coinvolto persino nel “processamento semantico” e nella “comprensione del linguaggio” (“sia il linguaggio esterno che interno”).

E infine si valuta l’impatto assolutamente saliente che il network ha proprio sul Mind Wandering, sull’analisi degli scopi personali e sul “pensiero episodico del futuro” (con un’attività “prominente” della corteccia prefrontale mediale).

L’autore ipotizza che il DMN “integri operazioni cognitive supportate dai suoi nodi per sostenere una narrazione interiore” e che consenta con le sue peculiarità di giungere a “nuove strutture di pensiero” che portano all’atto del MW.

“Errare è umano”

È delicata la parola “Mind Wandering” – la mente che erra (“errare è umano”, giusto?).

I concetti di cui abbiamo appena accennato, si spera con passo lieve, richiamano il celebre dipinto di Caspar D. Friedrich “Viandante sul mare di nebbia”: è un orizzonte suggestivo, di foschia, che può contenere quel che neanche, per ora, si immagina.

Nascono quesiti senza risposta… per esempio: il già citato Flow, che di fatto è il contrario del vagare mentale, ma è colmo di focalizzazione, non è forse comunque un totale estraniarsi dall’esterno? Dove stanno somiglianze e dissonanze?

Quante tonalità di inconsapevolezza finiamo per abitare? Perché cadiamo nella tana del Bianconiglio per sbaglio e, in altre occasioni, ci infiliamo in essa volontariamente?

In breve, abbiamo un cervello che non riposa nemmeno quando riposa, e non è veramente presente se non a tratti, dislocato, anche lui relativo. Viviamo, in poche parole, la saggezza e la follia più o meno consce di lasciarsi attraversare da quel che emerge, come onde, smarrendoci.

Come un incamminarsi lungo sentieri ignoti, per volontà di esplorazione, o, forse, senza rifletterci, ci si è semplicemente trovati lungo quelle vie.

Il Daydreaming e il Mind Wandering, quando non si costeggiano dirupi pericolosi, sono un eremita su di un percorso, ampliano lo spazio di conoscenza, spalancano finestre sugli stati di coscienza su cui ci interfacciamo costantemente, forse per il tempo di uno sguardo, forse di più, ma senza quasi accorgercene, nella maggior parte dei casi.

Ci aiutano ad alzare un poco il “Velo di Maya” su di un potenziale il cui bordo ci è appena visibile, dove immaginazione, fantasia, cognizione e pensiero coesistono, in un mondo di percepita e incontestabile fisicità, che è quello del nostro vivere, che è ciò da cui ci si distanzia, per poi ritornarvi, si spera, con un’illuminazione in più.

Questi scorci ci sussurrano di ambientazioni da cui possiamo trarre vantaggio, crescita, scoperta e maggiore abilità di veleggiare nella nostra esistenza, aumentando persino il nostro benessere e quell’indole creativa che, a diversi livelli, è in ogni essere umano.

Non di meno, espone ad antri ombrosi in cui si può restare impigliati, trasformando la fuga in una prigione e un esilio, invece di restare un modo di disegnare il domani per poi costruirlo.

Cosa c’è in tutto quel chiarore che il viandante su tela contempla?

E la tana del Bianconiglio, sino a dove arriva?

Quante volte siete stati davvero “qui”, oggi?

E “non-qui”?

Alessia Ghisi Migliari
Psicologa con Master in
Neuropsicologia Clinica
e Master in PNEI
www.sentieriliminali.com

Bibliografia e sitografia

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  4. Field B. (9 aprile 2024). “5 Positive Effects of Daydreaming”. Verywellmind. Link: https://www.verywellmind.com/positives-about-daydreaming-5119107
  5. Fox K. C. R., Beaty R. E. (2019). Mind-wandering as creative thinking: neural, psychological, and theoretical considerations. Current Opinion in Behavioral Sciences, vol. 27, pag. 123-130. https://doi.org/10.1016/j.cobeha.2018.10.009
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  8. Li H., Hills T. (2023). Mind wandering and daydreaming, are they different? (Preprint). Researchgate.net. DOI:10.21203/rs.3.rs-3430723/v1. Link: https://www.researchgate.net/publication/374841928_Mind_wandering_and_daydreaming_are_they_different
  9. Li Y., et al. (2022). The role of daydreaming and creative thinking in the relationship between inattention and real-life creativity: A test of multiple mediation model. Thinking Skills and Creativity, vol. 46. https://doi.org/10.1016/j.tsc.2022.101181
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Fotografie di Alessia Ghisi Migliari (C) Copyright Tutti i diritti riservati

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