Disperazione, il male dell’anima

Disperazione, il male dell’anima.Le energie si spengono, le speranze si affievoliscono sempre più lasciandoci inermi e vuoti di fronte alle situazioni alle quali non sappiamo più dare alcuna risposta: tutto diviene sgomento e buio svilendo la totalità dell’essere. Questa è la disperazione: “l’abbandono della speranza di una salvezza”. In psicoanalisi e psichiatria è una componente di tante “sindromi” di cui si parla sempre più spesso…

Secondo il filosofo Salvatore Natoli la disperazione è “un modo di stare al mondo”; due sono le disposizioni che la creano: “il sentimento della vanità del tutto” e “l’eccesso d’ordine”. Questo accade perché “in entrambi i casi è inibita l’azione: e ove nulla si può fare subentra la disperazione”. L’uomo, insomma, si scontra con due dilemmi: la caducità delle cose (e delle azioni) e la sua umana impossibilità a fermare questa logica. La vita che viviamo ci imprime la necessità di costruire continuamente, annientando in noi la capacità di fermarci e riflettere sul senso di quello che facciamo. Del resto quando un animale è rimasto a lungo in cattività anche nel momento in cui si lascia incustodito e con la porta della gabbia aperta ha bisogno di diverso tempo prima di reagire capendo che può uscire libero.

Allo stesso modo la logica dell’ingabbiamento in cui le persone vivono porta allo stravolgimento degli istinti primordiali, primo fra tutti quello della fuga. Infatti, quando si vorrebbero ottenere dei cambiamenti in una determinata situazione ci si accorge di come sia difficile costruire un piano di azione con obiettivi precisi da raggiungere, una forza di volontà costante per farlo, una motivazione continua per voler realizzare tutti quei passi che sono necessari per arrivare alla meta: è un lavoro immane perché il raggiungimento di ogni cambiamento è sempre in rapporto alla volontà di realizzarlo.

Le persone passano la maggior parte della loro esistenza a relazionarsi con quanto possiedono: anche i valori intrinseci e intimi vengono commisurati su una scala “economica” che possa tramutarli in aspetti tangibili del vivere. Sembra quasi che si possa vivere bene e sempre meglio solo se si accumula per esempio denaro, beni materiali, affetti continui, e si abbia il continuo riconoscimento da parte degli altri. Questo, sempre secondo Natoli, è “eccesso di attaccamento”, che non porta molto lontano perché è il voler far durare tutto in eterno senza renderci conto della caducità delle cose e della mutevolezza e maturazione degli affetti e dell’interiorità.

In questo stadio subentra poi la necessità di “mettere ordine”. È la fase nella quale si conta quello che si possiede e che quello che manca, quello che si potrebbe avere e quello che la vita non ci ha concesso. Molti danno la colpa alla sfortuna e continuano la loro esistenza magari caricandosi di odio e rancori, altri si limitano a non volere fare bilanci, altri cercano “fonti alternative” o stili di vita più consoni e coerenti, molti non ce la fanno e non riuscendo a trarre bilanci positivi si lasciano andare.

I primi segnali del disagio che può trasformarsi in disperazione ci provengono da ciò che facciamo: tutto diventa abitudinario e routinario. Alla semplice domanda del perché agiamo in un determinato modo non sappiamo dare una risposta o diamo la colpa all’abitudine, ad una necessità momentanea o solo alla nostra incapacità di recepire altri stimoli. Il tempo, inoltre, gioca il suo terribile ruolo rendendo le persone inebetite di fronte al fare e incapaci di compiere scelte per reagire. D’altra parte la continua ripetizione di un’azione perché non si vuole trovare l’alternativa, non fa che perpetrare la condizione di abitudinarietà, proprio come l’animale che non riesce a vedere la gabbia aperta.

In queste condizioni le persone finiscono col girare su se stesse autocentrandosi e autofagocitando solo gli aspetti negativi della propria esistenza, privandosi della condizione di uscire da quel vortice. È un modo come un altro per vincere la paura; non ci poniamo più quesiti perchè non vogliamo sentire la risposta. Si esorcizza la paura autoconvincendosi che la sicurezza sta entro i propri limiti, nelle proprie convinzioni, in quelle poche certezze che si è riusciti a costruire.

Sto pensando alla Regola Benedettina e come ogni sua parte sia focalizzata non nella limitazione, ma nella creativa e vigile costruzione continua di cambiamento interiore ed esteriore. Ogni monaco è, infatti, chiamato a dare il meglio di sé sia per la propria realizzazione e felicità sia per la condivisione e la koinonia nella vita comunitaria. È per questa ragione che i chiostri sono rettangolari o quadrati: incanalano la visione prospettica verso l’alto e impediscono la visione laterale soprattutto da diverse angolature. Quindi una situazione opposta a quella centripeta di cui parlavo prima: vedere e imparare a vedere nelle abitudini e consuetudini da svariate prospettive.

Il richiamo ancestrale “a dare ordine delle cose” non è più una semplice lista di proprietà o successi, ma si trasforma in una sequenza continua di eventi nei quali si riesce a dare forma e contenuto a ogni singolo avvenimento sia esso positivo o negativo. Mi viene in mente un’intervista allo scrittore Tiziano Terzani, nella quale spiegava che era giunto alla conclusione che nell’esistenza tutto segue una “logica matematica” per cui: il bene ha senso se esiste il male, la gioia se esiste il dolore ecc. Quando l’ordine delle cose s’inverte, viene alla luce solo ciò che non si ha o non si è riusciti a realizzare facendoci dimenticare quello che, al contrario, ha caratterizzato la nostra vita e, per poco che sia, ha un valore incommensurabile. Molto spesso questo valore ci è sconosciuto perché è correlato alle relazioni con le persone e a quanto queste sono a loro volta riuscite a seminare da quello che hanno ricevuto da noi.

Nei bilanci di carriera trovo spesso persone bloccate con la mente ferma sul rimpianto di quanto non hanno raggiunto o realizzato: la laurea o un incarico mancato. Sono come delle note di disonore che nei loro curricula vitae si espandono a macchia d’olio come inchiostro su una carta assorbente impedendo la lucidità e la capacità di vedere invece tutto quanto hanno realizzato per sé e per gli altri. Ed è stupefacente come tutti quei piccoli punti di forza, spesso poco considerati e sottovalutati rappresentino le vere capacità e qualità di queste persone. Punti di forza che, molto spesso, divengono i capisaldi per scelte operative diverse, per risolvere i problemi, per cambiamenti radicali di ruolo e di responsabilità. Quando lasciamo entrare nel nostro animo l’indifferenza diamo la possibilità ai germi della disperazione di attecchire in noi e ci accorgiamo di questo solo quando niente è più importante e tutto dipende solo ed esclusivamente dagli altri.

Cosa fare? Come combattere questi “germi”?

Quando la disperazione è conclamata, per il counseling è troppo tardi: servono azioni mirate e continue per evitare che la disperazione divenga tragedia o sfoci in patologie che non hanno un facile ritorno o in gesti inconsulti. Solo la psicologia, la psicoterapia e la psichiatria possono dare soluzioni a questi casi e l’azione di un counselor può essere un valido supporto alle terapie in atto (come l’aiutare la persona nella continuità delle cure, l’affiancamento motivazionale con la presenza, la creazione di stimoli continui che riportino la persona ad interessarsi di sé e di ciò che fa) da gestire in équipe e sotto la supervisione di uno specialista.

Quello che il counseling può invece fare è un’azione preventiva di formazione e di educazione continua all’autostima e alla ricerca della gioia autentica:

  • sviluppare sempre una filosofia di pensiero positivo evitando di pensare in modo negativo;
  • accrescere le capacità motivazionali nelle piccole cose quotidiane;
  • aiutare a interpretare gli eventi negativi e trasformarli in esperienze;
  • lavorare sulla qualità della vita attraverso un sistema di valori interiore;
  • saper godere di tutti i moment;
  • saper ricercare momenti positivi sia personali che nelle relazioni;
  • dare importanza ai propri spazi e coltivare la creatività;
  • creare obiettivi stabili, ma imparare a cambiare i programmi in base ai mutamenti delle situazioni;
  • curare il proprio corpo;
  • curare l’ambiente in cui si vive e personalizzare, dove possibile, lo spazio e il contesto di lavoro;
  • educarsi al sorriso, alla positività e al sano realismo;
  • occuparsi di sé anche attraverso gli altri;
  • occuparsi degli altri con piccole azioni per scoprire il senso della generosità e della gratuità.

Chiunque di noi abbia vissuto, grazie ai genitori o ai nostri educatori, questa fase formativa può sicuramente confermare che il cambiamento delle nostre azioni ci dà la possibilità e la capacità di interpretare i fatti di ogni giorno in modo meno drammatico e più prospettico. Ciò non significa perdere il contatto con la realtà, ma saperla adattare alle esigenze creando risposte. Quelle stesse risposte che, come dicevo all’inizio di solito le persone evitano.

Diceva Schopenhauer:

“Siamo tutti nati in Arcadia, tutti veniamo al mondo pieni di pretese di felicità e di piaceri, e nutriamo la folle speranza di farle valere, fino a quando il destino ci afferra bruscamente e ci mostra che nulla è nostro, mentre tutto è suo, poiché esso vanta un diritto incontestabile non solo su tutti i nostri possedimenti e i nostri guadagni, ma anche sulle nostre braccia e le nostre gambe, sui nostri occhi e sulle nostre orecchie, e perfino sul nostro naso al centro del volto. Poi viene l’esperienza e ci insegna che la felicità e i piaceri sono soltanto chimere che un’illusione ci mostra in lontananza, mentre la sofferenza e il dolore sono reali e si annunciano direttamente da sé, senza bisogno dell’illusione e dell’attesa. Se il suo insegnamento viene messo a frutto, smettiamo di cercare la felicità e i piaceri e ci preoccupiamo solo di sfuggire per quanto possibile alla sofferenza e al dolore. (“L’uomo saggio non persegue ciò che è piacevole, ma l’assenza di dolore”, cfr. Aristotele, Etica Nicomachea, VII, 12, 1152b 15-16). Ci rendiamo conto che il meglio che il mondo ci può offrire è un presente sopportabile, quieto e privo di dolore: se esso ci è dato sappiamo apprezzarlo, e ci guardiamo bene dal guastarlo aspirando senza posa a gioie immaginarie o preoccupandoci con timore di un futuro sempre incerto, che, per quanto lottiamo, rimane pur sempre nelle mani del destino. Inoltre: perché mai dovrebbe essere folle preoccuparsi sempre di godere il più possibile dell’unico, sicuro presente, se la vita intera altro non è che un frammento più grande di presente, e come tale assolutamente transeunte?”

Paolo G. Bianchi
Antropologo, Counselor

Bibliografia:

  1. S. Natoli: “Dizionario dei vizi e delle virtù”, Feltrinelli 2009
  2. A. Schopenhauer: “L’arte di essere felici”, Adelphi, 2000
  3. T. Terzani, intervista: http://www.youtube.com/watch?v=UGVzloA0GPc
  4. AAVV: “Il significato della disperazione”, Astrolabio, 1973
  5. G. Mereu: “La terapia verbale, la medicina della consapevolezza”, Il giardino dei libri, 2012
  6. P. Neveu: “Non temere i cambiamenti”, Ed. Il punto d’incontro, 2012
  7. J. Roth: “Il puzzle della vita”, Sangiovanni’s Strategies Editor, 2011
  8. A. Lowen: “Paura di vivere”, Astrolabio, 2011
  9. J. Krishnamurti: “Andare incontro alla vita”, Astrolabio 1993
  10. Z. Bauman: “Vita liquida”, Ed. Laterza, 2006
  11. Z. Bauman: “Modus Vivendi. Inferno e utopia del mondo liquido”, Laterza, 2008
  12. Z. Bauman: “L’arte della vita”, Ed. Laterza, 2009
  13. Z. Bauman: “Conversazioni sull’educazione”, Erickson Editore, 2012
  14. P. Crepet: “Educare oggi”, Ed. Enea, 2012

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