La nostra mente è plasmata dall’impiego quotidiano dei dispositivi digitali? Le ricerche scientifiche internazionali degli ultimi anni propendono nettamente per una risposta positiva. In particolare il nostro cervello può subire mutamenti strutturali correlati a un impiego anche massiccio dei numerosi dispositivi elettronici che abbiamo a disposizione. Quindi occorre prestare loro un’attenzione specifica, soprattutto se a usarli sono i bambini e gli adolescenti che, com’è noto, hanno una materia cerebrale molto più plastica.
Anche in età adulta le nostre reti neurali possono continuare a “dialogare” con quelle elettroniche ed esserne modificate (attraverso meccanismi di feedback). Se da un lato ciò ha consentito un eccezionale sviluppo tecno-comunicativo, per converso si sono presentati nuovi fenomeni di natura psicologica e psichiatrica di cui è importante tenere conto. La galassia di Gutenberg si è trasformata in un universo digitale nel quale l’essere umano è sempre più connesso mediante mezzi esteriori (strumenti tecnologici), ma tendenzialmente più sconnesso dai livelli profondi della propria coscienza, con annessi disturbi o patologie.
Depressione, ansia, insonnia e impulsività: questi sono i quattro disturbi principali osservati negli adolescenti a cui era stata diagnosticata una dipendenza da internet o da cellulare in uno studio condotto in Corea del Sud presso l’Università di Seul [2]. Per effettuare tale ricerca è stata impiegata una tipologia specifica di risonanza magnetica su 19 persone con un’età media di 15 anni e mezzo (di cui 9 maschi) con dipendenza dalle tecnologia citate, messe a confronto con altre 19 persone sane (omogenee per sesso ed età). Dodici dei giovani dipendenti dal web o dallo smartphone hanno seguito per nove settimane una terapia comportamentale di tipo cognitivo, modificando un programma terapeutico già utilizzato per trattare la dipendenza da videogame.
Altri due ricercatori del Sud Est asiatico [1] hanno, invece, adottato un modello di ricerca che prevede diversi indici di valutazione dell’ansia da separazione dal proprio smartphone, conducendo analisi di reti semantiche delle descrizioni che gli utenti ne facevano. Quando i cellulari venivano percepiti come un sé esteso, aumentava la probabilità che essi creassero una dipendenza da questi strumenti fino alla nomofobia (paura di essere sconnessi), accentuando la tendenza a tenere il cellulare vicino a sé e a usarlo frequentemente.
La nomofobia colpisce principalmente i giovani tra i 18 e 25 anni, persone con bassa autostima e problemi relazionali. Chi ne è affetto può persino arrivare a sperimentare veri e propri attacchi di panico, con tanto di vertigini, tremore, mancanza di respiro e tachicardia in caso di assenza di rete mobile o cellulare non funzionante. Per gli esperti tale fenomeno è in parte collegato all’uso compulsivo dei social networks [6].
Stando a un altro gruppo di ricercatori cinesi guidati da Kai Yuan, “la dipendenza a lungo termine da internet causerebbe alterazioni cerebrali strutturali, il che probabilmente ha contribuito a disfunzioni croniche in soggetti [già] affetti da tale dipendenza (Internet Addiction Disorder o IAD)” [12].
In uno studio americano più ampio, condotto su dati relativi alle abitudini digitali e alla salute psicologica di oltre 5200 persone, si è visto che, mentre le relazioni sociali de visu (positive) aumentano il nostro benessere, i networks digitali possono avere effetti avversi: “I nostri risultati – scrivono Holly B. Shakya e Nicholas A. Christakis sull’American Journal of Epidemiology [5] – dimostrano che, nel suo complesso, l’impiego di Facebook è stato associato in modo inversamente proporzionale al benessere”. In altri termini lo stato psicologico delle persone, secondo quanto riferito dagli intervistati, è peggiorato del 5-8% dopo aver eseguito comuni operazioni col social network più utilizzato al mondo. Il tentativo di far ricorso al più famoso social per contrastare il senso d’isolamento si è persino rivelato un boomerang in un’altra ricerca pubblicata nel 2017 (1) [16].
Facebook (Fb) è il social network più popolare anche in Italia: secondo un Rapporto del Censis [14] il 79,9% degli under 30 vi è iscritto, contro il 19,2% degli ultrasessantacinquenni. Gli utenti di WhatsApp sono il 65,7%, mentre uno su due usa i due social principali: Facebook (56,2%) e YouTube (49,6%). Il cellulare è usato dall’86,9% degli italiani e complessivamente, nel 2017, gli italiani connessi al web erano il 75,2% della popolazione. Si arriva a una quota del 90,5% tra gli utenti giovani e italiani (14-29 anni), mentre tra gli ultrasessantacinquenni ci si ferma al 38,3%, indice di un evidente divario generazionale.
Al momento in cui scriviamo Facebook ha già superato, nel mondo, i due miliardi di utenti attivi (2), Twitter è in terza posizione e Instagram in quarta (3). Si può rilevare come i loro effetti sulla salute della mente varino molto a seconda del tempo trascorso utilizzandoli (ovviamente un uso sapiente, accorto e misurato può persino avere un impatto positivo) e anche la struttura psicologica preesistente del soggetto deve essere attentamente considerata: chi soffre di depressione anche leggera e d’introversione è più a rischio di subire effetti avversi perché, mentre soprattutto nelle fasi iniziali del suo impiego, Fb può dare anche una sensazione di euforia, paradossalmente – come abbiamo già visto – in seguito potrebbe persino aumentare la sensazione d’isolamento (eventuale discrasia tra gli “amici” virtuali e quelli reali, confronto sociale sfavorevole).
Lo psichiatra e psicanalista Pietro Bria scrive:
“Se […] ci mettiamo nei panni del giovane adolescente ‘nativo digitale’ che esplora il mondo della virtualità (che, però, a questo punto, è forma di conoscenza e forma di vita) connettendosi – in modo più o meno compulsivo – nel mondo della rete, siamo forse più in grado di valutare di questa ‘connessione’ non solo gli aspetti più chiaramente ‘evolutivi’ – quelli in cui si espandono i poteri interattivi e integrativi della coscienza che stabilisce relazioni – ma anche quelli ‘difensivi’ che proteggono dall’irruzione di sentimenti o emozioni legate al corpo che non si riescono a integrare e, in ultimo, quelli più dichiaratamente patologici che si connettono ad aspetti compulsivi e che possono essere all’origine di sindromi da disconnessione che funzionano come vere e proprie ‘depressioni narcisistiche’ quando la ‘connessione idealizzata’ viene meno e si sgonfia”. [17]
Ci sono ricercatori che, negli Stati Uniti, hanno cercato di rendere conto del complesso dibattito sulla misura e il modo in cui le nuove tecnologie – che comprendono naturalmente mezzi tra loro molto diversi – influenzerebbero la neuroplasticità cerebrale degli adolescenti [8]. Si tenga conto che già nel 2010 si rilevava come mediamente un adolescente americano trascorresse 8,5 ore al giorno interagendo con i propri dispositivi digitali [10]. Anche in studi successivi (4) si è rilevata una maggiore tendenza a chiudersi in se stessi sostituendo, nei college americani, le relazioni de visu con rapporti attraverso i social [22].
È, inoltre, indubitabile che oggi sia gli adulti che bambini e adolescenti siano sempre più immersi in una dimensione multimediale in cui le immagini e i video hanno acquisito grande importanza (col relativo rischio di sovraccarico informativo ed eventuali conseguenti problemi per la nostra memoria [18]). Sempre più lavori si svolgono innanzi a schermi e la quotidianità di un numero crescente di professionisti è caratterizzata dall’impiego di computer, tablet e smartphone. Non si può neanche negare, tuttavia, che soprattutto in età più avanzate si possa beneficiare di input, mediante la ricerca sul web, che possono contribuire a mantenere il cervello in forma, stimolando tra l’altro la corteccia prefrontale [21].
Tuttavia un eventuale condizionamento delle nostre reti cerebrali andrebbe monitorato con maggiore attenzione applicando più rigorosamente la normativa vigente. La Legge italiana (5), ad esempio, prevede pause regolari quando si lavora esclusivamente di fronte a uno schermo. Si tratta di spazi di cui la mente e i sensi hanno bisogno per recuperare un contatto diretto col resto del mondo, non mediato attraverso le nuove tecnologie, che possono causare una dispersione e una sovrastimolazione eccessive. Il nostro “respiro” mentale pare, infatti, non possa rimanere confinato nei codici binari dei bit e in quelli comunicativi internettiani.
Martin Heidegger scriveva qualcosa che, ex post, potremmo persino riferire a questo particolare scenario dello sviluppo tecnologico (che già ai suoi tempi il filosofo tedesco criticava):
“Chiacchera, curiosità ed equivocità caratterizzano la maniera, in cui l’esserci è quotidianamente il suo «ci» (6), la schiusura dell’essere-nel-mondo. Questi caratteri in quanto determinazioni esistenziali non sono sottomano nell’esserci, sono parti costitutive del suo essere. In essi e nella loro connessione d’essere si disocculta un modo fondamentale dell’essere della quotidianità, che noi chiamiamo lo scadimento dell’esserci […]. Questo risolversi in… ha per lo più il carattere della dispersione della pubblicità del si (7)” (Essere e Tempo, p. 252 [15]).
Internet, con la sua immensa accessibilità al sapere umano, e in generale le nuove tecnologie, possono portare anche a un rischio di alienazione tecnologica. Ancora Heidegger osservava:
“Una curiosità versatile e un incessante saper-tutto danno l’illusione dell’universale comprensione dell’esserci. In sostanza però resta indeterminato e non ci si chiede che cosa poi, propriamente, debba essere «compreso»; resta incompreso che comprendere è, a sua volta, un poter essere, il quale solo nell’esserci più proprio può diventare libero. In questo acquietato confrontarsi con tutto, e tutto comprendere, l’esserci [ossia l’essere umano presente] è spinto verso un’estraneazione nella quale gli si copre il suo più proprio poter essere […]. Tale estraneazione, di nuovo, non può voler dire che l’esserci venga fattiziamente strappato a se stesso; al contrario essa spinge l’esserci in un modo d’essere che è più dedito alla più strenua «autoanalisi» […]”. (ivi, p. 255)
Dopodiché lo stesso Heidegger, sempre in Essere e tempo, prosegue parlando di un “crollo verso l’assenza” (dell’essere inautentico, disperso nella dimensione esteriore della chiacchiera, come troppo spesso sembra avvenire nei social): si tratta di un tipo di movimento dell’essere “che sempre distoglie la comprensione dal proiettare possibilità autentiche, per trascinarla nell’acquietata presunzione di possedere o di ottenere tutto” (ivi, p. 256).
Tuttavia internet, social compresi, possiedono anche straordinarie potenzialità e aspetti positivi legati alla rapida condivisione d’informazioni e d’esperienze. Possiamo ad esempio concludere con una prospettiva contemporanea proposta da Pierre Lévy [13], che evidenzia come tutti i dispositivi elettronici siano e saranno sempre più connessi tra loro (si pensi solo all’internet delle cose, in cui persino gli elettrodomestici sono collegati al web). Nasceranno anche nuove forme d’ibridazione tra i media classici e le nuove realtà internettiane. Così descrive Lévy il nostro scenario tecnologico-esistenziale e l’emergere di un’intelligenza collettiva nello scenario molecolare dell’informazione digitalizzata:
“Nel silenzio del pensiero, noi percorriamo sin d’ora i viali informatici del cyberspazio, abitiamo le imponderabili dimore digitali, ovunque diffuse, che costituiscono sin d’adesso le soggettività degli individui e dei gruppi. Il cyberspazio […] porta con sé modalità di percezione, sentimento, ricordo, lavoro, gioco e socialità. È un’architettura dell’interno, un sistema incompiuto delle strumentazioni collettive di intelligenza […]. La pianificazione del cyberspazio, ambiente di comunicazione e di pensiero dei gruppi umani, è uno dei principali traguardi […]”. (Pierre Lévy, “L’intelligenza collettiva. Per un’antropologia del cyberspazio”, p. 127)
Glauco Galante
Note
- La ricerca è stata condotta mediante un sondaggio che ha coinvolto 316 soggetti. In chi faceva un uso intensivo del più comune social network il costante confronto sociale ha spesso aumentato il senso di “disconnessione”. I ricercatori scrivono: “I risultati indicano che il desiderio di evitare l’isolamento sociale paradossalmente può, promuovendo il confronto con gli altri, diminuire la percezione del sostegno sociale, sopprimendo l’espressione di un sé autentico su Facebook” (EJ Lee et al., abstract [16]).
- Fonte: Statista
- Fonte: Similarweb
- Ad esempio Kujath CL, “Facebook and MySpace: Complement or substitute for face-to-face interaction?”, Cyberpsychol. Behav. Soc. Network, 2011;14:75-78
- Quindici minuti di pausa ogni due ore, come previsto dal D.lgs. n. 626/1994 e dal D.lgs n. 81/2008 per i lavoratori addetti ai videoterminali (esclusivamente se l’attività è di carattere continuativo e non ci sono altre mansioni di tipo amministrativo che sostituiscano le interruzioni, come precisato dalla Cassazione con sentenza n. 11 febbraio 2015, n.2679)
- Da intendersi come “essere qui” (Da-sein) ossia essere presente nel mondo, esservi “gettato” ovvero immerso nell’orizzonte strutturale della temporalità, nda
- Nel senso del “si dice, si fa, ecc.”, nda
Bibliografia
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