Con l’articolo di Stefano Cappa sul “Cervello Mnestico” prosegue l’iniziativa di BrainFactor per la Settimana del cervello (12-18/3/2012) “L’Alfabeto del cervello”, patrocinata anche quest’anno da Dana Foundation e realizzata in collaborazione con la Società Italiana di Neurologia (SIN) e con il Dipartimento di Neuroscienze e Tecnologie Biomediche (DNTB) dell’Università di Milano Bicocca.
Non esiste una sola “facoltà della memoria”, ovvero un singolo dispositivo nel nostro cervello che ci consente di analizzare informazioni, depositarle e richiamarle quando ci servono. La memoria non è una funzione unitaria, ma un insieme di strumenti differenti, che consentono di far fronte in modo articolato alla necessità biologica di registrare l’esperienza. Il sistema di memoria più complesso, forse patrimonio esclusivo della nostra specie, è la memoria episodica, responsabile della capacità di registrare, immagazzinare e recuperare quelle informazioni che sono caratterizzate da precise coordinate: dove, quando, con chi.
E’ importante sottolineare come la memoria episodica non funzioni come una specie di macchina fotografica, che riflette in modo necessariamente fedele le esperienze correnti, per poi conservarle intatte e a nostra disposizione. Ricordare è un processo di ricostruzione, che segue le leggi del funzionamento del cervello, piuttosto che i nostri desideri. E’ noto da tempo che la regione del cervello che, se danneggiata, determina una perdita della capacità di memorizzare nuove informazioni, è la parte profonda dei lobi temporali, che contiene il sistema dell’ippocampo.
Dobbiamo questa conoscenza ad una sfortunata osservazione chirurgica. Il famoso paziente Henry Molaison, deceduto tre anni fa, venne sottoposto ad asportazione bilaterale di questa parte del cervello, le cui funzioni erano allora poco conosciute, per trattare una forma incoercibile di epilessia. Se l’ippocampo non funziona, il soggetto diviene amnesico, ovvero non è più in grado di formare memorie episodiche; se invece l’ippocampo funziona, ma sono altre aree del cervello, nei lobi frontali, a essere compromesse, in seguito ad esempio di un trauma cranico o di un ictus, compaiono difficoltà nella precisa collocazione spaziale o temporale delle informazioni, ed i soggetti possono diventare “confusi”.
E’ interessante osservare come siano proprio queste aree del cervello, le più preziose, ad andare incontro per prime a modificazioni nell’invecchiamento normale e nelle malattie che colpiscono la memoria, quali la malattia di Alzheimer e la demenza vascolare. Le neuroscienze ci stanno progressivamente consentendo di andare oltre la pura ricostruzione delle aree cerebrali che consentono di formare, mantenere e recuperare i ricordi. Sappiamo sempre di più degli eventi che a livello cellulare e molecolare consentono il funzionamento efficiente di questo complesso sistema.
Ad esempio, è recente la scoperta, da parte del gruppo di Cristina Alberini a New York, del ruolo di un fattore di crescita nel consolidamento della memoria nel topo. Da queste conoscenze ci possiamo attendere strumenti efficaci per potere curare le molte malattie che colpiscono la memoria. A titolo di esempio, consideriamo la malattia di Alzheimer e il disturbo post-traumatico da stress. Nel primo caso, l’obiettivo è naturalmente contrastare la progressiva perdita di memoria dovuta alla morte cellulare; nel secondo, si tratta al contrario di sviluppare delle possibilità di intervento che consentano di cancellare, o comunque di rendere inoffensive, delle memorie disturbanti. In entrambi i casi, la scoperta del meccanismi molecolari che sono alla base della formazione e del consolidamento delle tracce di memoria può aprire la strada allo sviluppo di nuove terapie, sia farmacologiche che non farmacologiche.
Prof. Stefano Cappa
Professore ordinario di Neuroscienze Cognitive
Università Vita-Salute S. Raffaele di Milano
Società Italiana di Neurologia (SIN)
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