LONDRA – Un tempo oggetto di studio d’elezione delle scienze sociali, oggi la “politica” stimola l’interesse anche dei neuroscienziati. Sì, perché “le scienze biologiche possono offrire intuizioni cruciali sul pensiero ideologico e le azioni conseguenti”. Di questo sono convinti i curatori del nuovo lavoro monografico di Pilosophycal Transactions of the Royal Society B, dedicato al “cervello politico” (Zmigrod & Tsakiris, 2021 in press).
“In un momento di polarizzazione ideologica e di dilagante disinformazione – spiegano gli Autori – è urgente il bisogno di comprendere le radici psicologiche e le conseguenze del comportamento politico: vengono in aiuto le neuroscienze, le scienze cognitive computazionali, lo studio delle attitudini sociopolitiche, la psicologia sperimentale, il neuroimaging, la neuropsicologia, oltre alla riflessione teoretica e metodologica”.
Per rendere contezza dello stato dell’arte della ricerca in materia, lo speciale copre tre aree tematiche, che corrispondono ad altrettanti filoni di indagine: approcci computazionali (con fuoco sui meccanismi “fini” sottostanti il comportamento politico), prospettive neurocognitive (neuroimaging e tecniche psicofisiologiche per “fotografare” i processi ideologici), paradigmi comportamentali (per non dimenticare l’importanza delle variabili culturali nel complesso).
Coordinato dagli psicologi Leor Zmigrod dell’Università di Cambridge e Manos Tsakiris dell’Università di Londra, lo “speciale” ospita una ventina di studi (parte dei quali pubblicati in modalità Open Access) sui “correlati cognitivi e percettivi delle attitudini ideologiche”, sulla “categorizzazione sociale quale struttura latente di apprendimento del comportamento politico”, sulle “basi neurali delle differenze ideologiche nella categorizzazione della razza”, sulla “polarizzazione mispercettiva”, sul “populismo” e altro ancora.
Alcuni degli Autori, tra cui la stessa Zmigrod su The Conversation, si spingono a ventilare la possibilità futura (o futuribile, alla Minority Report) di identificare precocemente le persone con tratti cognitivi indicatori di “vulnerabilità all’estremismo”, per invitarli a terapie di supporto focalizzate a “un cambiamento e una crescita verso una maggiore comprensione sociale”. Insomma, una sorta di rieducazione soft per i più ostinati. Cosa che – purtroppo – abbiamo visto accedere non solo nei romanzi di orwelliana memoria. Ma qui siamo già sul terreno della neuroetica…
Photo by Samuel Regan-Asante on Unsplash
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