Il Dodo, la Regina rossa e Turing: sulla sussistenza del concetto di validazione in psicoterapia

Il Dodo, la Regina rossa e Turing: sulla sussistenza del concetto di validazione in psicoterapia.Il presente contributo prende spunto da alcune domande: in che cosa consiste una psicoterapia “empiricamente validata”? Il che sottende ad altre questioni: che cosa si intende per “validazione” e che cosa si intende per “psicoterapia”? E quali sono le metodologie (posto che esistano) attraverso le quali l’oggetto misterioso “psicoterapia” possa assurgere (sempreché possa o debba) a dignità scientifica?

La brevità è l’anima del senno, e il parlar troppo un fronzolo esteriore
(W. Shakespeare)

La proliferazione delle differenti forme di psicoterapia con basi teoriche “autonomamente” elaborate, inoltre, si è impennata negli ultimi anni in modo vertiginoso. La spinta alla validazione empirica della psicoterapia efficace è quindi divenuta una sorta di esigenza selettiva (con alcuni criteri di stampo maggiormente economico-assicurativo che verranno analizzati).

La prima considerazione, e importante, è il fatto che ci troviamo in una fase pre-paradigmatica, dove nuove acquisizioni di stampo tecnologico (si pensi alla fMRI) e l’utilizzo di metodologie di indagine statistica con una differente potenza esplicativa rispetto alla complessità del reale stanno lentamente affermandosi nell’assetto scientifico contemporaneo. Ma, come ricorda Pennati (2011), Max Planck ribadisce che “i paradigmi cambiano quando muoiono i professori universitari che li usano; solo allora ne subentrano di nuovi” (Ibidem); risulta quindi utile chiarire lo stato dell’arte ad oggi, per meglio comprendere come le nuove modalità di indagine possano integrarsi nel dibattito odierno per contribuire ad un reale incremento della conoscenza.

L’incertezza è la “base sicura”?

Conoscenza che, si sa, subisce lo stesso processo evolutivo degli organismi viventi: alcune soccombono alle richieste dell’ambiente scientifico mentre altre si evolvono verso forme più adattative: logica Kuhniana. Forse per questo, il Dodo (preclaro esempio dei cari estinti) è stato eletto nel 1973 a rappresentante di un verdetto chiave nella ricerca in psicoterapia. Nel testo di L. Carroll, “Alice nel paese delle meraviglie” il nostro pennuto, per evitare una zuffa al termine di una gara tra animali, se ne esce con il verdetto: “ognuno ha vinto, e tutti meritano un premio!”. Il fatto è che abbiamo imparato che non tutti possono vincere.

Pionieristicamente, Rozensweig (1936), sulla scorta di un lavoro meta-analitico su studi di confronto d’efficacia tra le psicoterapie utilizzò quel verdetto per attestare che tra le psicoterapie nessuna parve ottenere un primato rispetto ad un’altra nell’outcome clinico. Da lì il “Dodo Virdict”è assurto a nodo sostanziale nella verifica dei risultati delle psicoterapie. Se ne è rimasto quiescente (Hunsley e Di Giulio, 2002), fino alle successive ricerche di Luborsky et al. (1975), che pubblicarono i risultati di una imponente meta-analisi su 100 studi comparativi di differenti forme di psicoterapia determinando una pari efficacia tra trattamenti di diverso stampo teorico-clinico. Se teniamo conto che ad oggi il numero di “scuole” di psicoterapia rifacentisi ad orientamenti clinici differenti sono più di quattrocento, la faccenda si complica e altri Autori (Smith, Glass & Miller, 1980) sono riusciti a selezionare ben 474 studi di comparazione sui trattamenti, ottenendo le stesse conclusioni di Luborsky.

In realtà, dal lavoro del 1975, pochi contributi hanno apertamente sfidato il verdetto del pennuto, tanto da far scrivere a Beutler (1991) che “l’opinione prevalente, anche tra affermati ricercatori, è che tutte le psicoterapie siano relativamente equivalenti” (p. 226, traduzione mia). Luborsky (1995) e Weinberger (1995) hanno più di recente rinforzato questa opinione sulla scorta della rewiew di un corpus meta-analisi sugli esiti di differenti psicoterapie. Tentando una spiegazione per un simile (singolare?) verdetto, alcuni (Weinberger, 1995; Lambert & Bergin, 1994; Stiles, Shapiro & Elliott, 1986) hanno ipotizzato come l’effetto di appiattimento delle differenze sia dovuto all’esistenza di alcuni fattori trasversali a tutte le psicoterapie (secondo lo stesso Rosenzweig, la relazione terapeutica o “l’alleanza di lavoro”, il possesso di una chiave esplicativa per spiegare il problema del paziente, l’integrazione dei sistemi di personalità e la personalità del terapeuta; per altri le aspettative di successo terapeutico, l’esperienza del terapeuta, una relazione accuditiva e accogliente). La ricerca di tali fattori comuni ha fornito grande energia al dibattito sull’integrazione delle psicoterapie, ma la loro esistenza non facilita certo il riconoscimento di un “proprium” scientifico per ogni specifica psicoterapia. Certo, si potrebbe obiettare che le meta-analisi analizzate dagli Autori che sostengono il Dodo Virdict abbiano utilizzato criteri variabili (Wilson & Rachman, 1983); o con Beutler (1991) che non si sia sufficientemente tarato il tipo di psicoterapia sul tipo di paziente; o, ancora, che le procedure statistiche di analisi dei dati non siano state sufficientemente accurate (Kazdin & Bass, 1989).

Lo stesso Luborsky (2002) propone più di recente alcune ipotesi esplicative per i bassi indici statistici di differenza riscontrati in un congruo numero di meta-analisi:
-i differenti tipi di trattamenti considerati sembrerebbero avere una comunanza di “ingredienti” principali; è logico quindi attendersi differenze non significative (sostanzialmente, la stessa spiegazione sui fattori comuni addotta da Rosenzweig nel 1936);
-le fedeltà dei ricercatori al tipo di trattamento condotto sembra differire tra i vari studi e ciò potrebbe favorire talvolta un metodo, talvolta l’altro;
-le difficoltà cliniche e procedurali nei trattamenti potrebbero aver contribuito alla non significatività dei trend statistici;
-le interazioni tra certi pazienti e le tipologie di trattamento, se non considerate, potrebbero contribuire alla non significatività delle differenze riscontrate.

In sintesi, nonostante l’auspicio di alcuni “aggiustamenti” metodologici nelle procedure di verifica, la conclusione è che “The Dodo Virdict is alive and well – mostly” (tale è il titolo del contributo). L’uccellino è vivo e vegeto, quindi, e satollo di una serie di contributi che non sono stati in grado di riscontrare effettive discrepanze nell’outcome tra diverse psicoterapie: Elkin & Coll. (1989) non trovano alcuna differenza tra CBT, IPT e Placebo nei disturbi dell’umore; il MATCH Group (1997-2003) non ne rileva nel trattamento degli abusi da alcool; Benish et al. (2007) non ha successo con i PTSD, e così Stiles & Coll. (2006). Allora, quale fattore può spiegare l’efficacia di una psicoterapia? Secondo Lambert (In Norcross, 1986), il successo terapeutico pare esitare per il 30% dalla relazione paziente-terapeuta, per il 15% dall’aspettativa/effetto placebo, per il 40% dalla spontanea remissione dei sintomi e solo per il rimanente 15% dall’impianto teorico e dalle tecniche utilizzate (vorrei poter dire: una differenza che fa la differenza, ma non era questo il senso di Bateson).

Ma il Dodo è estinto, e qualche detrattore deve pur averlo, tanto da farlo definire un “mito” da Sibilia. Hunsley & Di Giulio (2002) affermano che, ad una attenta considerazione delle meta-analisi di studi sull’efficacia delle psicoterapie, “non vi è alcun sostegno al verdetto di Dodo […] Visto in questa luce, questo Dodo non è un uccello simile ad una fenice, ma somiglia piuttosto ad una diceria ripetuta ed infondata circa un uccello da tempo estinto. In altre parole, il verdetto di Dodo è più plausibilmente una leggenda urbana che una posizione scientificamente fondata”.

Quello stesso manuale di Roth e Fonagy (il famoso “What works for Whom”), che nella prima edizione del 1996 sosteneva che il Verdetto di Dodo risultasse una realtà incontrovertibile, nell’ultima edizione (2006) tende a sconfessarlo apertamente. Così per alcuni Autori le psicoterapie si equivalgono, per altri no. Forse è la finezza delle analisi statistiche e il rigore metodologico, insieme alla riflessione sull’essenza stessa della psicoterapia, a dare ragione ora agli uni ora agli altri. Ma che cosa effettivamente contraddistingue il rapporto psicoterapico, quel 30% di possibilità che il terapeuta ottemperi in maniera non casuale al proprio mandato sociale? Sulla scorta delle acquisizioni di Wampold (2001) pare che in realtà si stia facendo ricerca sul livello di convinzione del terapeuta nell’efficacia delle proprie tecniche e sulla sua personalità, gli unici fattori significativi nella psicoterapia efficace. Il tipo di trattamento rispetto alla principali correnti psicoterapeutiche, le basi teoriche e l’aderenza alle tecniche utilizzate sembrerebbero, per l’Autore, fattori del tutto aspecifici. Il proprium della psicoterapia di successo sembra quindi essere l’alleanza tra paziente e terapeuta; dato peraltro confermato da una congrua mole di studi condotti secondo la metodologia Randomized Controlled Trial (Krupnick et al, 1996).  Come a dire, il nostro pennuto non pare essersi estinto quanto aver cambiato forma: parafrasando Hunsley & Di Giulio (2002), è una fenice che rinasce dalle proprie ceneri in forme differenti; ora la chiamiamo in un modo, ora nell’altro; ma il suo verso pare sempre suonare come “Non c’è tutta questa differenza”.  

Ciò premesso, e sottolineato che il dibattito è ancora acceso tra Autori che vorrebbero il Dodo impagliato ed altri che ne inneggiano al trionfo, la domanda che è legittimo porsi è: che cosa stiamo mettendo sotto la lente del microscopio? E ancora: i coloranti che stiamo utilizzando per il nostro vetrino sono effettivamente quelli giusti?

La psicoterapia, questo oggetto misterioso

Ovvero: che costa stiamo cercando di mettere sotto la lente del microscopio? Di che cosa stiamo discutendo quando parliamo di psicoterapia? Per una definizione puntuale di psicoterapia, chi scrive rimanda al paper di Ambrogio Pennati “Ubik Kipple e Qualia: la coscienza dell’empatia come base per l’integrazione delle psicoterapie” (2011), che dettaglia, esaminando l’opera di J. Searle, come la psicoterapia sia un “fatto istituzionale”, esistente dalla notte dei tempi ed “intrinsecamente legata alle pratiche di guarigione sciamanica e religiosa, che attivano – quando possibile – moduli di autoguarigione aiutando il malato a percepire il sentimento di essere evolutivamente utile al gruppo – geneticamente o memeticamente definito – di appartenenza” (Ibidem). Al fine del presente lavoro sarà però utile esaminare alcune definizioni, per poi comprendere se e come questo “oggetto misterioso” possa (o debba?) essere “misurato”.

Le forme di psicoterapia si sono enormemente differenziate e il termine stesso non risulta oggi essere univoco; possiamo concettualizzarlo piuttosto come una parola “ombrello” che include tipologie di intervento spesso nettamente differenziate (Roth & Fonagy, 1996). In comune, tali forme possono avere un “contratto” tra soggetti che si accordino sul cooperare verso il benessere psicologico dall’interno di una cornice teoretica di riferimento attraverso l’utilizzo di tecniche coerenti con tale cornice.

Ma più che un insieme di abilità o tecniche acquisite, alcuni Autori preferiscono parlare di psicoterapia come “craft”, ovvero come insieme di competenze artigianali piuttosto che tecniche; la Letteratura registra un accordo pressoché comune sulla necessità di adattare la specifica tecnica al soggetto in psicoterapia (Horwitz & coll, 1996). Ciò avviene all’interno di un “setting” (che include lo stato mentale del paziente e del terapeuta, Nissim Momigliano, 2001) in cui si forma una “alleanza terapeutica” (Dazzi & DeCoro, 2007). Se, in accordo con svariati Autori (Young & Heller 2000, Van Deurzen & Smith, 1996), la psicoterapia risulta essere qualcosa di più simile ad una competenza artigianale che a un fare schiettamente scientifico (ancorché “craft” informato dalla scienza e che a sua volte informa la scienza, Young & Heller, 2000), risulta necessario sottolineare la centralità di alcuni suoi aspetti: come accennato, la personalità del terapeuta e la sua convinzione sull’efficacia dei propri strumenti (Wampold, 2001), ma soprattutto quella natura peculiare di  “rapporto” che deve divenire rapporto “terapeutico”, ovvero occuparsi della “cura”.

Al di là di ogni altra differenza, vi è infatti consenso assolutamente unanime a che la psicoterapia abbia / debba avere una funzione di cura. Ma qual è l’oggetto della cura? Per alcuni il disagio “categorizzato”, ovvero racchiuso nello scrigno di diagnosi nomotetiche che definiscano “disturbi”. Il che evoca una cartesiana dicotomia tra il “sano” e “malato”, secondo metodologie diagnostiche condivise, in barba all’emergenza sempre più manifesta delle logiche fuzzy o dei paradigmi della complessità. Ma questa logica appartiene veramente alla psicoterapia? O quantomeno, riflette la realtà delle cose? O piuttosto, come affermano Young & Heller (2000) lo psicoterapeuta, dall’interno del rapporto:

“[…] assist others in the journey of their soul. We sometimes help them to heal the wounds that have not yet healed. We apply rigourous criteria to ourselves – and this is good. This helps shape us. We cannot go with others where we have not gone ourselves – and this is good. This helps shape us. We cannot go with others where we have not gone ourselves, or where we are not prepared to go ourselves. Our work, our craft, marks us too. We cannot practise these skills effectively and be unmoved”?

L’obiettivo dello specialista riguarda forse concetti più lati come la “sofferenza individuale”, la “disfunzione”, gli aspetti del “disagio” personale e “anche dei suoi disturbi, indipendentemente dal fatto che la persona sia malata o meno” (Pazzagli & Benvenuti, 2006). Le moderne tendenze che cercano di definire l’oggetto della psicoterapia si spostano quindi da assetti diagnostici nomotetici (“conformistici”, per dirla con Paniccia, 2007), basati sulla necessità di spiegare (Erklaren), mutuati dalla scienza della natura (Naturwessenshaften) verso aspetti idiografici, dove i rapporti tra termini sono rapporti di “senso” e non di “causa”, nella storicità dell’oggetto, basati sulla comprensione (Verstehen) e sull’empatia (Einfühlung), mutuati quindi dalle scienze umane (Geisteswissenshaftenen). Questo anelito all’individualità dell’esperienza vissuta, al di fuori di logiche categoriali, ben sottolineato dalla psichiatria fenomenologica e recepito oggi dall’ “arte” della psicoterapia sottolinea come “comprensione” ed “empatia” risultino concetti definitori che informano il “craft”.

Insieme di competenze artigianali quindi, funzione di comprensione ed empatia, il cui compito operativo risulta modellarsi per rispondere –anche e statisticamente soprattutto- alla domanda di quel 70% delle richieste che non risultano riconducibili ad una categoria psicopatologica definita e che viene etichettata dai servizi sotto la dicitura “disturbi emotivi comuni” (Paniccia, 2007). Ciò posto, che tipo di verifica può essere impiegata per validare tale “craft”? Chiederci questo significa interrogarci sui coloranti e sulle metodologie osservative che dobbiamo utilizzare per analizzare ciò che contiene il nostro “vetrino”.

Evidence Based Medicine = Evidence Based Psychotherapy?

La Evidence Based Medicine (EBM) sembra nascere ufficialmente nel 1830, con la promozione, da parte di Pierre Charles Alexandre Louis, della Médecine d’Observation, che caldeggiava il ricorrere ai risultati delle sperimentazioni sui trattamenti rispetto alla “semplice” esperienza clinica. Ben più tardi (1972), Archibald Cochrane, sottolineava la propria preoccupazione relativa al fatto che la professione medica non avesse ancora saputo organizzare un sistema in grado di rendere disponibili, e costantemente aggiornate, delle revisioni critiche sugli effetti dell’assistenza sanitaria”.

Nasce la EBM, che si afferma nel paradigma dominante con la progressiva introduzione dei Randomized Controlled Trials (RCT) come standard di riferimento per valutare l’efficacia di un trattamento medico. Una tale attitudine verificazionista investe la psicoterapia, verso il tentativo di compilare analoghi elenchi di terapie “efficaci”. L’accettazione di tale ottica da parte degli ambienti “psych” ha risposto in parte alla preoccupazione di veder relegato il proprio intervento a cura secondaria rispetto ad un approccio psico-farmacologico verificato; dall’altra è necessario puntualizzare come, dall’interno del sistema della managed care in America, si siano in quegli anni imposte riflessioni sul bilancio costi/benefici nel rimborso di una psicoterapia. La domanda che si impone al “mercato” (sic) delle psicoterapie risulta quindi essere: quale terapia è efficace per quale patologia? Ci si incentra quindi sul tentativo di applicazione dei criteri RCT al nostro “craft” per misurare l’ “efficacia” nel tempo, nell’ottica di soddisfare contemporaneamente il cliente e contenere i costi di rimborso (Sanderson, 2003). Quindi, in sostanza, il movimento verificazionista pare sorgere dalla necessità di bilanciare il taglio dei costi della managed care e l’efficacia delle procedure di cura; il criterio di efficacia (prescinderemo qui dalle differenze efficacia / efficienza) diviene quindi una variabile cruciale in tale bilancio, per via del fatto che la terapia pur breve ma infruttuosa avrebbe alzato i costi, aumentando verosimilmente il livello del disagio individuale e reso quindi il soggetto meno responsivo ad un secondo trattamento (Ibidem).

Nel 1995 l’America Psychological Association pubblica quindi due rapporti di una Task Force che separò i trattamenti EST (Empiricamente supportati: Empirically Supported Treatment) da terapie a lungo termine e meno strutturate (in genere le terapie realmente praticate) e ci si augurò che i terapeuti fossero formati essenzialmente in questi trattamenti, di “breve durata” e “EST certified”, essendo altre forme di psicoterapia “meno essenziali e superate” (Migone, 2005). Ora, osservando le esigenze degli EST, possiamo accorgerci di come esistano fortissimi vincoli interni, epistemologici e metodologici, specifici per l’elaborazione e valutazione dei trattamenti (Chambless & Ollendick, 2000; Kendall, Marrs-Garcia, Nath & Shedlrick, 1999; Nathan, Stuart & Dolan, 2000):
-i criteri di inclusione portano alla selezione di soggetti che massimizzano l’omogeneità dei campioni sperimentale e di controllo, minimizzando la presenza di condizioni che potrebbero aumentare la variabilità della risposta terapeutica;
-le terapie devono essere di durata “breve” o comunque prefissata; il protocollo terapeutico dev’essere rigido e identico in tutti i casi;
-i trattamenti focalizzano l’azione psicoterapeutica su un unico disturbo nosograficamente identificabile in accordo con i principi; diagnostici accettati dalla comunità internazionale (Goldfried, 2000); i criteri di inclusione tendono quindi ad accantonare quei soggetti con comorbidità e risulta necessario ignorare eventuali mutamenti sintomatologici in direzione differente dal disturbo-target (Wilson, 1998);
-i trattamenti devono essere manualizzati e il livello di aderenza del clinico al manuale di intervento viene monitorizzato.

In sintesi, il movimento EST tende alla valutazione dell’efficacia di psicoterapie applicate a soggetti monosintomatici attraverso trattamenti manualizzati e brevi, finalizzati alla cura di disturbi specifici, minimizzando la variabile “terapeuta” e valutando lo studio in campioni omogenei e soltanto secondo la patologia-target (Gazzillo & Lingiardi, 2007).

Da un punto di vista squisitamente critico emerge come tali trattamenti, pur ottenendo un outcome positivo nel breve periodo,  registrino ricadute a 2 anni di follow-up richiedendo un ulteriore trattamento (logica avversa alla cost-effectiveness) ed escludano completamente il concetto di comorbidità, evidenza reale e primaria tanto in medicina quanto in psicoterapia (Westen & Morrison, 2001). Secondo questi Autori, gli studi EST riguardo a psicoterapie intraprese su Episodio Depressivo Maggiore, Disturbo d’Ansia Generalizzato e Disturbo da Attacchi di Panico hanno mostrato una costanza dell’outcome in un follow up di 2 anni di soltanto il 10%.

La domanda che ad oggi la ricerca si pone è quindi: stiamo parlando di trattamenti “reali” in ottiche cooperative con pazienti “reali”? Cercheremo di affrontare alcuni punti di vista in maggior dettaglio. Risulta in primis impossibile non notare come l’intero set di criteri funzioni da prerequisito per differenziare in modo significativo le condizioni sperimentali da quelle della reale pratica psicoterapeutica (Seligman, 1995). Ancora, un assunto di base degli studi EST ritiene che alcune tecniche debbano risultare più efficaci in determinate classi di disturbi, quando altri studi attestano in realtà come svariate forme di psicoterapia si equivalgano (Lambert & Ogles, 2004, Wampold, 2001). La maggior parte dei pazienti sembra infatti rispondere a fattori non specifici ma fortemente caratterizzanti la qualità della relazione, i fattori ambientali, le caratteristiche di cliente e terapeuta (Lambert, 1992, Norcross & Lambert, 2006, Wampold, 2001). Ancora, la metodologia EST sembra scotomizzare un importante dato di realtà: i pazienti che presentano più disturbi in comorbidità.

Secondo Hill & Lambert (2004) i criteri di misurazione dell’outcome dovrebbero adeguarsi a questo aspetto di esperienza clinica. L’idea generale di svariati Autori è che non sia legittimo supporre l’esistenza di un paziente “in vitro”, ovvero che risponda ad uno –e uno solo- tra i raggruppamenti sintomatologici previsti dalle categorie diagnostiche: come accennato, in barba alle logiche più moderne ma anche alla realtà della quotidiana pratica clinica. A mera evidenza statistica, la comorbidità Asse I-Asse II pare infatti variare in Letteratura dal 50 al 90% a seconda dei contributi. Secondo i sostenitori della metodologia RCT, questo è un falso problema: può infatti essere possibile affrontare un disturbo per volta, utilizzando sequenzialmente manuali e tecniche, fino al completo eradicamento del disagio. Questa soluzione però non pare percorribile in svariate condizioni: se i disturbi esitano da una sottostante causa comune (magari personologica o temperamentale), se risultano l’epifenomeno di tratti personologici in asse II che creino vulnerabilità per ricadute e infine se (secondo Westen, 2001, l’emergenza più comune) la compresenza dei sintomi genera proprietà emergenti non semplicemente riconducibili alla loro somma. Un altro fattore di rilievo riguarda la presenza di condizioni sub-cliniche non evidenziabili in termini diagnostici categoriali.

Così, il nostro paziente diviene un paziente ipotetico, steso su di un riduzionistico letto di Procuste e, last but non least, ciò ci pone un problema etico non indifferente. La metodologia RCT, fondandosi su criteri EBM, risponde necessariamente ad una sottaciuta concezione di psicoterapia come “correzione del deficit” (Paniccia, 2007): diagnosi, prognosi e correzione verso la restitutio ad integrum. L’esclusivo riferirsi alla diagnosi categoriale, limitata peraltro alle condizioni di evidente rilevanza clinica in Asse I fa infatti in modo che la “domanda” dell’individuo venga sostituita dalla mera esistenza di una definita forma psicopatologica. Il che infrange inevitabilmente quel mandato sociale che viene regolato dalla committenza, intesa come “quelle declinazioni contingenti, contestualmente e storicamente connotate, in cui le finalità del mandato si concretizzano in prassi specifiche entro un rapporto professionale” (Ibidem). Quell’indispensabile principio di cooperazione che Pennati (2011) ci ricorda essere alla base della relazione psicoterapeutica non può quindi che venir meno laddove non si accolga una domanda specifica, storicamente dotata di senso, ma si adotti un criterio occamistico di restituzione all’ipotetico mondo di “coloro che son desti”.

Un secondo terreno di aspre critiche alla metodologia RCT riguarda la questione della manualizzazione. E’ naturale che l’ottica verificazionista debba sottostare all’obbligo scientifico di minimizzare le variabili intervenienti; ma è altrettanto palese che l’assunto di base soggiacente alla manualizzazione sia che gli elementi di una psicoterapia siano scorporabili e sommabili. Ovvero, la psicoterapia diviene un insieme di tecniche applicabili secondo una logica lineare-sequenziale, mentre è dimostrato che una psicoterapia non possa essere “smantellata” perché il suo significato è differente dalla somma delle parti (Migone, 2005). D’altra parte, come rileva Cesario, si rimane prigionieri di un’ottica contraddittoria in cui risulta sì necessario avere dei “pacchetti” invarianti e utilizzabili per l’intervento su di un dato disturbo, ma contemporaneamente ci si auspica che l’operatore esperto possa introdurre delle utili modificazioni al protocollo.

Tutto ciò senza contare il fatto che, se il pacchetto rimane invariato, non è affatto detto che lo rimanga il disturbo. Ne deriva il paradosso che la manualizzazione risulta contemporaneamente irraggiungibile, necessaria ma potenzialmente dannosa. Inoltre si suppone che gli interventi manualizzati siano necessariamente correlati causalmente con l’outcome, mentre alcuni studi che hanno utilizzato il Psychotherapy Process Q-Set (PQS) hanno dimostrato che gli interventi utilizzati sono spesso appartenenti a manuali diversi e che spesso non pare esservi correlazione tra risultato e interventi prescritti dal manuale (Migone, 2005, Westen, 2001). Un’altra critica ampiamente condivisa tra i detrattori della metodologia RCT è la seguente: la lunghezza dei follow-up si estende in media per 2 anni dalla fine del trattamento, ma ciò pare violare di fatto la procedura EBM o, quantomeno, utilizzarne una variante molto permissiva: quale coscienzioso ricercatore medico potrebbe infatti ipotizzare un follow-up così breve? Ancora, secondo alcuni Autori (Migone, 2005) svariate forme di psicoterapia portano alla comprensione di un reale problema in fase avanzata; l’obbligo di una siffatta brevità non risponde ad una reale esigenza di verifica.

In estrema sintesi: l’ottica validazionista pare osservare una psicoterapia “in vitro” quanto il paziente di cui si occupa e sembra quindi distanziarsi apertamente dal reale fare clinico di cui ognuno di noi ha esperienza. Inoltre, questi criteri, pur internamente coerenti all’interno della EBM, sono effettivamente criteri valutativi di ciò che possiamo definire un “craft”, un insieme di abilità artigianali fondate sul rapporto empatico, sulle personalità di paziente e terapeuta e sulla fine discriminazione dei bisogni dell’individuo in un dato istante? E’ vera “scienza”? E soprattutto, è la vera “scienza” che serve?  Norcross (2011), in una meta-analisi di oltre 20 studi osserva come:
-la qualità della relazione in psicoterapia risulti determinante ai fini dell’outcome indipendentemente dal tipo di orientamento seguito;
-le linee guida dovrebbero indirizzare i comportamenti e le qualità dei terapeuti per aumentare la relazione terapeutica;
-gli sforzi per promulgare la “best practice” senza includere attenzione e monitorizzazione della relazione terapeutica portino a risultati non attendibili;
-i terapeuti dovrebbero monitorizzare attentamente le risposte dei pazienti dall’interno della relazione;
-relazione e trattamento lavorano di concerto insieme alle caratteristiche del paziente  e del terapeuta nel determinare l’outcome
-adattare la relazione alle caratteristiche del paziente (tailoring) risulta un fattore migliorativo per l’outcome.

Horvath & Coll (2011) hanno condotto una imponente meta-analisi su 201 studi (circa 14.000 pazienti), ribadendo la centralità della qualità della relazione terapeutica. Si tenga presente che nella clinica psichiatrica, che cura disturbi nosograficamente definiti e adotta criteri di valutazione degli interventi relativamente precisi, non esiste alcun protocollo validato di cura per nessun disturbo: esistono linee guide, che hanno valore orientativo ma non normativo.

La validazione esterna in psicoterapia è come la Regina Rossa di Alice del paese delle meraviglie, che appena ti avvicini sfugge e scompagina le carte e le regole del gioco. Se ci si pone un attimo fuori dalla dinamica (anche emotiva) dell’analisi dei dati di letteratura in merito, e si riflette su quale sia il vero gioco in atto quando si parla di validazione delle psicoterapie è evidente che l’obiettivo, in ultima analisi, è quello di automatizzare i processi di cura elidendo progressivamente (anche, verrebbe da dire, per via chirurgica) le variabili strettamente soggettive del cliente e del terapeuta per giungere ad una interazione meramente linguistica osservante dei criteri della logia formale. Come non pensare al test di Turing (1950) ed ai suoi derivati odierni (verbal robots)? Giova ricordare che Searle (mediante l’esperimento della stanza cinese) dimostra come non sia possibile essere certi che l’entità con la quale stiamo dialogando sia pensante, anche se questa ha superato il test di Turing (NB: nessun sistema esperto sembra l’abbia effettivamente superato). En passant, citando Searle occorre ricordare come egli dimostri che non è possibile applicare tecnologie derivate dalle scienze dell’oggettività alle scienze della soggettività (che fondano la pratica della psicoterapia).

Lo stato dell’arte

Se da una parte la EBM può essere un utile strumento di confronto per la verifica delle psicoterapie ne risultano altrettanto alcuni limiti strutturali che diversi studiosi stanno ora focalizzando. Sono in atto tentativi di soluzione: la considerazione della relazione terapeutica, l’aggiustamento delle metodologie e l’approntamento di strumenti sofisticati di indagine statistica potranno portare ad una rivalutazione del comune “proprium” delle psicoterapie verso un tentativo di validazione più coerente all’essenza del rapporto terapeutico. Ma è realmente questo il terreno su cui misurare e misurarsi? E’ possibile con le metodologie odierne (in particolare, con apparati statistici linerari che producono dati basandosi su osservazioni puntiformi) misurare onestamente fenomeni tanto complessi quali la modifica del comportamento, dell’assetto emotivo o delle capacità di adattamento di un organismo umano a seguito dell’interazione con l’esperienza della psicoterapia? E soprattutto, fuori da logiche di mercato e di “managed care”, è veramente necessario (ove possibile) validare una psicoterapia? Allo stato attuale delle conoscenze, adottando un approccio scientifico, la risposta è NO.

Alessandro Baffigi
Psicologo, psicoterapeuta
Integrational Mind Labs

Ambrogio Pennati, MD
Psichiatra, psicopatologo forense
Integrational Mind Labs

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