Il metodo scientifico in psichiatra e psicologia forensi (parte 2)

Il metodo scientifico in psichiatra e psicologia forensi (parte 2).Che tipo di “prove scientifiche” possono fornire psicologi e psichiatri forensi? I dati utilizzati nei Tribunali appartengono alla scienza o sono solo il frutto della nostra “meravigliosa” tecnologia? Ecco la seconda parte dell’articolo sul “Metodo scientifico in psichiatria e psicologia forensi” del Prof. Ugo Fornari, già ordinario di Psicopatologia Forense all’Università di Torino, e del Dott. Ambrogio Pennati, medico psichiatra, psicoterapeuta, esperto in psicopatologia forense.

La prova “scientifica”

Se dunque la scienza non è neutrale, le ricerche e le teorie scientifiche risentono delle contingenze culturali e sociali di quel determinato momento storico, le posizioni assunte dai tecnici della psiche sono tutt’altro che scevre da pregiudizi e finzioni personali e derivate dal contesto giudiziario, quale affidabilità e credibilità conferire a periti e consulenti?

Credo possibile la seguente risposta che propongo alla discussione: nel gioco delle parti in cui ognuno tutela le proprie convinzioni e le proprie valutazioni senza stravolgere i dati obiettivi, possono conferire valore di prova all’elaborato peritale il rispetto della verità scientifica accreditata in quel momento storico, il rigore metodologico e il rispetto dei criteri seguiti per giungere a determinate valutazioni: non certo le inesistenti e improponibili imparzialità, obiettività e scientificità delle stesse.

La “prova scientifica” che psicologi e psichiatri forensi possono fornire agli operatori del giudiziario, pertanto non è rappresentata dall’uso di strumenti diagnostici (in senso lato intesi) più o meno raffinati e in grado di “misurare” le funzioni mentali di un soggetto, bensì dal rigore con cui essi, nell’assoluto rispetto della deontologia professionale, applicano la criteriologia e la metodologia peritali e osservano regole minime nella compilazione dei loro elaborati.

Può essere opportuno riportare una distinzione netta tra scienza e tecnologia dato che, troppo spesso, questi termini sono intesi come sinonimi. “L’obiettivo della tecnologia è apertamente materiale. La tecnologia usa la conoscenza acquisita tramite la scienza per creare un nuovo sistema. Essa lavora con processi specifici, per inventare nuovi sistemi o migliorare, modificare, implementare un sistema esistente, mentre il processo coinvolto nella scienza implica solo il processo della scoperta” (PACEY A: Technology in World Civilization: a Thousand-Years History. MIT Press, 1990).

Queste differenze possono essere così schematizzate (DUGGER W.E. Jr. & YUNG J.E.: Technology Education Today. Bloomington, VA: Phi Delta Kappa Educational Foundation, 1995):

Tecnologia / Scienza

Quanta ambiguità, deleteria nel processo di decision-making forense, deriva dall’utilizzo di questi termini come sinonimi? Quante volte prendiamo per scientifico un dato che è, invece, tecnologico?

Scientifico è costruire ipotesi falsificabili, abbandonando il metodo verificazionista e i pregiudizi di cui spesso è infarcito il nostro “sapere”; scientifico è, nel settore delle scienze umane, utilizzare con prudenza e con una certa dose di scetticismo il cercare spiegazioni e motivazioni criminogenetiche e criminodinamiche che vadano “al di là di ogni ragionevole dubbio”; scientifico è accettare il principio del relativismo scientifico, rinunciando a ogni presa di posizione “dogmatica” o “fideistica”; scientifico è ammettere l’irriducibile antinomia, presente in molti ambiti, tra scienza e diritto; scientifico è ricordare che la prova di natura scientifica è affidabile se basata su criteri accettati e condivisi dalla comunità scientifica che l’accredita sulla scorta delle conoscenze e dei progressi raggiunti in quel momento storico-culturale; scientifico è utilizzare tecniche e metodologie a riconosciuta validità clinica, in tanto in quanto applicate nella maggioranza dei casi e dalla maggioranza dei periti; scientifico è non esprimere opinioni che derivano dalla sola esperienza di quel perito; scientifico è poter fornire un parere motivato e valido che tenga conto di tutto quello che –allo stato- costituisce patrimonio comune e condiviso della nostra conoscenza e del nostro operare come periti e/o consulenti.

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I problemi della formazione

Ne consegue che coloro che si candidano o vengono scelti per lavorare in ambito giudiziario devono:

  • aver seguito un training specifico;
  • essere in grado di documentarlo;
  • aver imparato ad applicare le loro conoscenze cliniche ai molteplici e specifici problemi della valutazione forense.

Sia psichiatra sia psicologo clinici non sono in grado di svolgere le attività di cui sopra senza aver rivisitato le loro conoscenze teoriche e la loro operatività, immergendole in tre grandi contenitori: uno culturale (criminologico), uno metodologico (medico-legale) e uno giuridico (la conoscenza delle norme contenute nei codici). Nessuno può cimentarsi in ambito forense, se privo o carente di una buona formazione clinica di base.

Ma non basta: il lavoro peritale comporta un’attività di formazione continua che va oltre la preparazione fornita dalle scuole di psichiatria e di psicologia clinica (non parliamo di quelle di medicina legale, assolutamente inidonee sul piano psicologico e psichiatrico clinico), perché riguarda un «committente» (il magistrato o il difensore) e un «utente» (il periziando) ben diversi da coloro che tradizionalmente si incontrano negli ambulatori e negli studi privati. Nulla quaestio sull’importanza della criminologia generale nella formulazione e nell’elaborazione di teorie, che contribuiscono ad una lettura non settoriale, ma integrata dei problemi della criminalità.

In altre parole, medicina legale e criminologia forniscono rispettivamente un metodo e una cultura utili alla formazione dello psichiatra forense e dello psicologo giudiziario: formazione che, però, è fondamentalmente affidata al lavoro «sul campo». A questo proposito, mai sufficienti saranno le perplessità e le critiche circa il fiorire e il moltiplicarsi di sedicenti «scuole» di formazione in psichiatria forense e psicologia giudiziaria, più o meno condite dall’ingrediente che da qualche anno va molto di moda anche in Italia: la criminologia giuridica e sociologica prima e, recentemente, quella investigativa e criminalistica. Il problema , ben inteso, non esiste  se la quantità di corsi attivati e attivandi non va a detrimento della qualità e se i docenti sono in grado di fornire ai discenti training formativi non solo teorici, ma anche e soprattutto pratici nelle loro diverse articolazioni del sapere, del saper fare e del saper essere.

Il Giudice, per canto suo, deve :

  • essere in grado di poter scegliere un perito (competenza e capacità scientifica dell’esperto);
  • essere messo a conoscenza del metodo da questi applicato (tradizionale, clinico, sperimentale);
  • essere competente nel valutarlo;
  • pretendere chiarezza diagnostica (modello categoriale);
  • esigere chiare e comprensibili spiegazioni sul funzionamento mentale del soggetto in esame in riferimento al fatto avente rilevanza giuridica (modello funzionale);
  • poter comprendere l’incidenza della valutazione clinica sull’oggetto specifico dell’accertamento disposto e i provvedimenti da prendere (vizio di mente, pericolosità sociale, cure, capacità decisionale, istituti di protezione) – il c.d. nesso etiologico o significato d’infermità dell’atto.

La conclusione possibile, allo stato, è quella di ricordare una parte della Sentenza delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, e cioè: “…e per il resto, quanto al rapporto ed al contenuto dei due piani del giudizio (quello biologico e quello normativo), il secondo non appare poter prescindere, in ogni caso, dai contenuti del sapere scientifico…sicché, postulandosi, nella simbiosi  di un piano empirico e di uno normativo, una necessaria collaborazione tra giustizia penale e scienza, a quest’ultima il giudice non può in ogni caso rinunciare  e (Omissis) non può che fare riferimento alle acquisizioni scientifiche che, per un verso, siano quelle più aggiornate e, per altro verso, siano quelle più generalmente accolte, più condivise, finendo col costituire generalizzata (anche se non unica, unanime) prassi applicativa dei relativi protocolli scientifici…” (Cass. Pen., Sezioni Unite, sentenza n. 9163/2005).

Le implicazioni pratiche

Tutti questi problemi prima ancora che sulla valutazione dell’infermità di mente, della pericolosità sociale, della capacità di partecipare coscientemente al processo, della capacità decisionale e di altri aspetti del quesito peritale, si riflettono sulla diagnosi clinica, premessa indispensabile a qualsiasi intervento terapeutico e valutativo.

La diagnosi clinica è il risultato di un processo costruttivo che prevede l’integrazione dei modelli categoriale (nosografico) e dimensionale (funzionale) (1), con ricorso o meno a indagini psicodiagnostiche o ad altri tipi di valutazione. Essa si articola attraverso diversi passaggi che includono strategie relazionali, tecniche di intervista, raccolta di dati anamnestici, ricorso a test mentali e ad altri mezzi di indagine, individuazione di criteri diagnostici specifici e differenziali e analisi funzionale.

Non esiste un approccio diagnostico unico, ottimale, codificabile e codificato, ma è sempre indispensabile che sia stata prioritariamente costruita una relazione significativa in cui collocare i dati clinici e quelli ricavati dai protocolli o dalle indagini strumentali (interviste, questionari, test mentali e di valutazione neuropsicologica e quant’altro l’intervistatore voglia utilizzare), confermandone o disconfermandone validità e significato in una dimensione clinica individualizzata.

La diagnosi è un momento importante della perizia, ma non sufficiente e tanto meno esauriente il compito peritale (modello e approccio categoriale). Infatti quello che importa stabilire non è solo la connessione tra categoria diagnostica e reato, bensì quella tra disturbo psicopatologico, funzionamento patologico psichico e delitto (modello e approccio funzionale). I due modelli si devono integrare reciprocamente, senza possibilità che l’uno prevalga sull’altro o lo escluda.

Si può in questo modo stabilire una corrispondenza tra le categorie giuridiche dell’intendere e del volere con quelle dimensionali del funzionamento dell’Io come segue:

  • capacità di intendere = funzioni percettivo-memorizzative, funzioni organizzative: e funzioni previsionali. Esse riguardano fondamentalmente le funzioni cognitive e la capacità riflessiva del soggetto (lobi frontali);
  • capacità di volere = funzioni decisionali e funzioni esecutive. Esse riguardano fondamentalmente i processi affettivo emotivi e decisionali (ippocampo e amigdala).

L’infermità di mente è un costrutto che riconosce i seguenti passaggi metodologici:

  • insieme di diagnosi categoriale e funzionale (aspetti complementari, ma distinti, da non confondere l’uno con l’altro);
  • compromissione rilevante e grave delle funzioni autonome dell’Io al momento e in riferimento al fatto agito o subito (il quid novi o il quid pluris);
  • eventuali alterazioni morfofunzionali dei lobi frontali, temporali e del sistema limbico;
  • significato di infermità dell’atto agito o subito.

È ragionevole pensare che, in caso di vizio di mente, un disturbo mentale produca un disordine comportamentale che precede, accompagna e segue il reato di gravità diversa, a seconda dell’entità e della quantità di compromissione delle singole funzioni psichiche; delle condizioni di acuzie o di cronicità; di produzione o di spengimento della sintomatologia psicopatologica; di età; di assunzione o meno di terapie psicofarmacologiche e psicoterapeutiche; della eventuale presenza o meno di alterazioni morfo funzionali (ipoattività) a carico dei lobi frontali, dell’ippocampo e dell’amigdala.

In questo senso, più aree funzionali dell’Io saranno investite dal disturbo patologico psichico ed eventualmente neurologico, più ampia ed evidente potrà essere la compromissione comportamentale (comportamento organizzato e disorganizzato), con evidenti conseguenze in ambito di vizio di mente totale (responsabilità esclusa) o parziale (responsabilità grandemente scemata).

Nota (1):

  • Approccio categoriale o alfanumerico. Nell’I.C.D. (classificazione internazionale delle sindromi e dei disturbi psichici e comportamentali) i criteri diagnostici classificano dettagliatamente oltre 300 sindromi e disturbi. Nel D.S.M. (manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali) la diagnosi di disturbo mentale viene fatta tenendo presenti cinque diverse classi di informazione e di decodificazione dei sintomi e dei segni psicopatologici (sistema di valutazione multiassiale)
  • Approccio funzionale o dimensionale. Consiste nella costruzione di contenitori in cui vengono collocati gruppi di sintomi (riferiti dal paziente) e di segni (rilevati dall’osservatore), indicatori di una comune, alterata funzione mentale che riguarda le funzioni dell’Io. Le alterazioni funzionali di questa infrastruttura della personalità sono verosimilmente sostenute da un meccanismo patofisiologico specifico, ad altri funzionalmente correlato.

Prof. Ugo Fornari
già Professore Ordinario di Psicopatologia Forense Università di Torino

Dott. Ambrogio Pennati, MD
medico psichiatra, psicoterapeuta, esperto in psicopatologia forense

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