Perché considerare il c.d. “comportamento suicidario” (suicidal behavior) una possibile entità diagnostica (suicidal behavior disorder) nel DSM, cioè un “disturbo” a sé? Lo spiega un sintetico ma interessante articolo di Maria A. Qquendo ed Enrique Baca-Garcia della Columbia University, uscito in questi giorni su World Psychiatry.
Nonostante il suicidio e il tentato suicidio si riscontrino spesso nel contesto di una condizione psichiatrica, non sempre è così, dicono gli autori: il 10% dei morti suicidi in USA e il 37% in Cina ad esempio non presenta disturbi mentali identificabili.
D’altro canto, anche nelle condizioni psichiatriche in cui il rischio di suicidio è più elevato, molti pazienti non mettono in atto il gesto estremo: nel caso del disturbo bipolare, ad esempio, “soltanto” (sic!) il 29% dei pazienti arriva a tentare di farsi fuori, mentre la maggioranza non lo fa.
Dunque, “il comportamento suicidario non sembra essere una dimensione intrinseca di alcun disturbo psichiatrico” e meriterebbe un posto a sé nel nuovo manuale come “diagnosi separata”. Al momento, il disturbo da comportamento suicidario nel DSM-5 ci sta, ma soltanto nei “Criteri proposti”, quelli cioè “non intesi per l’utilizzo clinico” ma per “fornire un linguaggio comune a ricercatori e clinici che intendano studiare questi disturbi” sui quali si “incoraggia la futura ricerca”, come evidenziano gli estensori del celebre manuale.
Secondo Qquendo e Baca-Garcia questa condizione rispetterebbe appieno i criteri di validità diagnostica fissati da Robins e Guze (1970): è clinicamente ben descritta, è associata a marcatori biologici (principalmente ipofunzione serotoninergica e compromissione del feedback dell’asse HPA), è adatta a procedure di diagnosi differenziale, può ripresentarsi con un tasso di ricaduta più alto nelle persone precedentemente diagnosticate.
Inoltre, al pari della altre condizioni psichiatriche, le sue caratteristiche soddisferebbero tutti i criteri per l’inclusione come entità diagnostica previsti dallo stesso DSM-5: è una sindrome comportamentale o psicologica, è associata a una sofferenza o disabilità clinicamente significativa, è diagnosticamente valida, riflette un sottostante disordine psicobiologico e come diagnosi è clinicamente utile. Infine, ha validatori antecedenti, concorrenti e predittivi e la sua definizione ha “evidenze” di validità e affidabilità.
Certo, non è esente da “limitazioni”. I critici si concentrano principalmente sul fatto che il “comportamento suicidario” possa essere un sintomo e che diagnosi di questo tipo possano un giorno portare anche alla “medicalizzazione” dell’omicidio. Ma – secondo gli autori – i vantaggi di questa nuova “entità” supererebbero di gran lunga le sue limitazioni. Staremo a vedere. (MM)
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