Istituzionalizzazione, affidamento, “traumi cumulativi”: gli effetti sul cervello dei bambini

Il valore della comunicazione affettiva come imprinting di uno stato somatopsichico

L’infanzia rappresenta un periodo di grande importanza, durante il quale alcune funzioni come la comunicazione e l’acquisizione delle capacità di autoregolazione emotiva, riflettono uno dei processi fondamentali di sviluppo. Infatti attraverso la comunicazione visuo-spaziale, uditivo-prosodica e tattile-gestuale, sia il caregiver che il bambino imparano reciprocamente ad apprendere la struttura ritmica dell’altro, modificando il proprio comportamento (Papousek, H., 2019). Un vero e proprio scambio traducibile in un processo di “co-creazione”, che dà vita sia ad una interazione reciproca sia ad un adattamento sempre più graduale.

Proprio attraverso le comunicazioni affettive, tra le quali figura il contatto fisico, la madre si sintonizza psicologicamente, sincronizzando il pattern spazio temporale della sua stimolazione sensoriale con le manifestazioni spontanee ed aperte provenienti dal bambino (Kohut, H., 1977). Infatti non solo valuta le espressioni non verbali degli stati di attivazione interna, bensì gli stati affettivi del bambino stesso, che verranno regolati e soprattutto restituiti. Tuttavia questo scambio non sempre risulta fluido e lineare in quanto la rottura dei legami di attaccamento può provocare una disfunzione inerente sia le capacità di autoregolazione quanto l’omeostasi dell’organismo (Tronick, E. Z., 1989).

Neurobiologia dell’attaccamento e sincronizzazione inter-relazionale

Da una prospettiva psicobiologica l’attaccamento è stato definito da Schore, come “regolazione interattiva degli stati di sincronicità di tipo biologica” (Schore, A. N., 2000). Grazie ad essa è dunque possibile notare e comprendere come la sincronizzazione affettiva e la riparazione interattiva, nonché co-costruttiva, siano i capisaldi che costituiscono le basi dell’attaccamento e delle emozioni connesse ad esso (Oliverio Ferraris, A., 2011). Le prime relazioni rappresentano infatti il punto centrale in grado di favorire un sano e adattivo sviluppo del bambino, sotto due importanti profili: quello cognitivo e quello affettivo. Nondimeno, nel loro insieme, consentono la fioritura di alcune funzioni psichiche, come ad esempio il senso di Sé, l’autoconsapevolezza, le strategie di regolazione emotiva, le modalità con cui pensare, conoscere e percepire la realtà; funzioni che col passare del tempo si sviluppano, maturano e rappresentano la lente con cui il soggetto inizierà a percepire sé stesso e il mondo circostante.

Prendendo dunque in esame le prime relazioni è possibile comprendere come esse diano vita ad uno stile di interazione che in alcuni casi può divenire disfunzionale, ripetitivo e disadattivo. Spesso infatti esperienze negative quali maltrattamenti, abusi e trascuratezza emotiva, possono determinare gravissime conseguenze inerenti sia lo sviluppo psicologico che quello neurobiologico (Schore, A., 2008), che nel panorama dell’adozione si traducono spesso e volentieri in uno o più eventi traumatici: se ripetitivi e costanti prendono il nome di “trauma cumulativo” (Khan, M., 1979). Il trauma si riferisce quindi non solo ad un evento, ma soprattutto all’intensità con cui esso viene a presentarsi dinanzi al soggetto.

Le esperienze traumatiche quali nuove modalità di autoregolazione

Col termine trauma si designa un’esperienza che in un breve lasso di tempo apporta delle modifiche somatopsichiche, che in futuro se non elaborate in modo adattivo possono innescare dei comportamenti e degli stili di risposta, che saranno il frutto di una cronicizzazione (Bromberg, P. M., 2009), evidenziando dunque un profilo psicologico caratterizzato non solo da una bassa autostima, ma anche da una fragilità psichica, che se non rispecchiata e supportata può sfociare in un quadro psicopatologico.

L’esperienza adottiva, se non pienamente accolta ed elaborata, può rispecchiare una condizione di profonda sofferenza, le cui tracce delineano il punto di partenza a partire dall’infanzia, rispetto alla quale, l’aver esperito contesti abusanti e/o trascuranti, come ad esempio la realtà degli orfanotrofi, può inscrivere nel corpo una “trama neurobiologica” che non sempre si è in grado di nominare e dunque di narrare costruttivamente (Oliverio Ferraris, A., 2011). Più nello specifico si assiste ad una ridotta capacità da parte del soggetto di identificare, rappresentare e monitorare i propri stati corporei, mentali, affettivi e comportamentali, i quali a livello somatico riflettono un “cablaggio disfunzionale / neurobiologico” che rischia di creare una lente attraverso la quale guardare la realtà esterna e i propri vissuti interni, in maniera non del tutto adeguata; spesso difficile da adoperare e a volte restrittiva e/o limitante sotto un profilo relazionale (Caretti, V., Craparo, G., 2008).

Secondo Ross (Ross, C. A. 2007), il trauma evolutivo apre le porte ad un ventaglio di fenomeni psicopatologici; nondimeno, secondo l’autore, più si è esposti a contesti relazionali abusanti e trascuranti durante l’infanzia, maggiore è la possibilità di sviluppare un disturbo mentale. Infatti il bambino, acquisendo schemi cognitivi disfunzionali, inizia ad escludere la propria soggettività nonché il ruolo e il valore stesso degli affetti, interiorizzando così una percezione ed una rappresentazione di sé e degli altri del tutto disadattivi.

Traumi di natura interpersonale precoci possono costituire dei “disorganizzatori psichici dell’esperienza” (Schimmenti, A., 2008) connessi con sistemi rappresentazionali che portano a concepire il mondo in maniera minacciosa, ostile e difficile da fronteggiare (Fonagy, P., 2001). Risulta quindi chiaro come il trauma evolutivo possa portare ad esiti di natura psicopatologica intaccando sette domini principali: l’attaccamento, la biologia, la regolazione affettiva, la dissociazione, il controllo comportamentale, le capacità cognitive ed il concetto di sé. Questa concatenazione di eventi rappresenta dunque non solo l’esito di esperienze traumatiche, ma anche l’ingresso verso l’esordio di disturbi mentali come la depressione (Bifulco, A., 2007), i disturbi del comportamento alimentare, le dipendenze da sostanze, il disturbo borderline (Fonagy, P., 2003) e i disturbi dissociativi (Nijenhuis, E. R. S., 2000).

Lo psichiatra Van Der Kolk sostiene che l’esposizione cronica ad una o a più forme di trauma a livello interpersonale (come l’abbandono, l’abuso, la violenza fisica) faccia emergere schemi di risposta disfunzionali che si possono riscontrare a più livelli (Van Der Kolk, B. A., 2008). Infatti ad essere intaccati sono il livello emotivo, somatico, comportamentale, cognitivo e relazionale; un insieme di fattori che complessivamente determinerebbero un’alterazione delle rappresentazioni del Sé e degli altri e intaccherebbero il modo di vedere la realtà circostante ed attribuirgli un significato. La trascuratezza emotiva sarebbe “una configurazione specifica patogena” che nel campo relazionale vede protagonisti il bambino e le sue figure di accudimento (Caretti, V., Craparo, G., 2008).

La biochimica cerebrale dei bambini istituzionalizzati e non: il Bucharest Early Intervention Project

Nel 2001 un gruppo di ricercatori dell’Ospedale dei Bambini di Boston della Harvard Medical School hanno documentato e analizzato le alterazioni che si possono produrre nei circuiti cerebrali di bambini vissuti negli orfanotrofi di Bucarest. I risultati dello studio sono stati divulgati in Italia, tra gli altri, da Francesco Bottaccioli, che ha messo bene in evidenza i cambiamenti biochimici e neurobiologici riscontrati nei cervelli dei bambini istituzionalizzati, nonché le modalità di autoregolazione emotiva e fisiologica che rischiano di ripercuotersi sul presente.

La ricerca (Bick, J. et al, 2015) faceva parte del “Bucharest Early Intervention Project”, che ha coinvolto sei orfanotrofi della capitale romena e tre università americane con capofila Harvard, il cui obiettivo era esaminare da un lato gli effetti della istituzionalizzazione infantile sullo sviluppo cerebrale e comportamentale, dall’altro verificare quanto l’affidamento familiare fosse in grado di determinare il ripristino dei medesimi danni cerebrali. “I 136 bambini attorno ai due anni di età che stavano in orfanotrofio dalla nascita o comunque da pochi mesi dopo la nascita sono stati divisi in modo casuale (random) in due gruppi, di cui il primo inviato in affidamento mentre il secondo rimasto invece in orfanotrofio: lo studio ha previsto un terzo gruppo, di controllo, formato da bambini di Bucarest della stessa età che vivono in famiglia”, spiega Bottaccioli (Bottaccioli, F., 2015).

Tutti i bambini sono stati osservati per circa 8 anni ad intervalli regolari, monitorando sia il loro sviluppo intellettivo sia quello comportamentale, fino ad un’età compresa tra i 9 e gli 11 anni, valorizzando sempre più una visione olistica inerente sia lo sviluppo psicobiologico quanto quello cognitivo. “Infine – prosegue il nostro – un campione per ognuno dei tre gruppi è stato selezionato per essere sottoposto a una minuziosa ed estesa indagine cerebrale realizzata con la tecnica di neuroimaging a tensore di diffusione (DTI) che consente di visualizzare i fasci di fibre di materia bianca che connettono le aree cerebrali tra di loro”.

Sulla base dei risultati emersi, i bambini in orfanotrofio hanno evidenziato alterazioni inerenti la microstruttura della materia bianca in una serie di circuiti e circoscritti nello specifico: alla parte centrale del corpo calloso, al cingolo, alla corona radiata, al fornice, alla capsula esterna, all’area retro-lenticolare della capsula interna e al lemnisco mediale. Inoltre le immagini dei medesimi circuiti cerebrali dei bambini istituzionalizzati, con l’unica eccezione dell’area retro-lenticolare della capsula interna, “hanno mostrato deficit di collegamento, che spiegano anche i disturbi comportamentali, cognitivi e nella gestione delle emozioni che, con maggiore frequenza, sono presenti in questi bambini abbandonati”. Davvero interessante è l’eccezione dell’area retro-lenticolare della capsula interna che, invece d’indebolirsi, si è mostrata ispessita e quindi più funzionale. Quest’area fa parte del sistema visivo ed è l’area sensoriale studiata assieme al lemnisco mediale, una via nervosa che trasporta la sensibilità dal corpo al cervello, che invece è deficitaria come tutti gli altri circuiti. “Verrebbe da pensare – riflette Bottaccioli – che negli orfani istituzionalizzati ci sia una maggiore acutezza visiva, come necessità di stare sempre in allerta, e una scarsa sensibilità tattile, un ottundimento dei sensi dalla mancanza di carezze e più in generale da scarso contatto umano”.

Viceversa, nei bambini in affidamento la DTI ha prodotto immagini cerebrali simili ai bambini inseriti in un nucleo familiare, nonostante lievi differenze inerenti la materia bianca, più nello specifico relativi sia al corpo calloso, sia alla corona radiata. Per quanto concerne invece il recupero dei danni cerebrali, lo studio ha evidenziato lo stretto rapporto tra le esperienze traumatiche e la plasticità cerebrale, a conferma di quanto il cervello umano sia un vero e proprio organo in grado di adattarsi in maniera funzionale e/o disadattiva alle circostanze ambientali (Daniele, M, T., Manna, V., Pinto, M., 2014). Nondimeno, attraverso la dimensione epigenetica è possibile percepire le esperienze traumatiche quali vere e proprie dinamiche intrapsichiche capaci di apportare cambiamenti sia morfologici sia psicologici.

Entrando dunque a contatto con stimoli ambientali adattivi o disadattivi, in base ai propri stili di autoregolazione emotiva e al proprio background biologico ed esperienziale, saremmo dunque in grado sin dall’infanzia di apportare “modificazioni epigenetiche, traducibili in veri e propri marker psicobiologici” (Militello, C., 2022). Attraverso questo studio è stato possibile valorizzare il ruolo delle esperienze traumatiche dell’infanzia, specialmente nei contesti di abbandono e trascuratezza emotiva che troppo spesso si riscontrano negli orfanotrofi, realtà dove l’infanzia sembra essere una tappa mai vissuta.

Cristi Marcì
Psicologo, specializzando in psicoterapia

Bibliografia:

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  • Bromberg, P. M., “Destare il sognatore. Percorsi clinici”, Raffaello Cortina, Milano 2009.
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  • Schore, A. N., “La regolazione degli affetti e la riparazione del Sé”, Astrolabio, Roma 2008
  • Tronick, E. Z., “Emotions and emotional communication in infants”, Am Psychol. 1989 Feb; 44(2):112-9. doi: 10.1037//0003-066x.44.2.112
  • Van Der Kolk, B. A., “Il disturbo traumatico dello sviluppo: verso una diagnosi razionale per bambini cronicamente traumatizzati”, in V. Caretti e G. Craparo, cit.

Foto di Bernard Hermant su Unsplash

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