Secondo le teorie classiche e olistiche della devianza, il comportamento criminale è da considerarsi un tratto “normale”, un fenomeno persino necessario al fine di rinforzare le norme presenti all’interno di un’organizzazione sociale; secondo Emile Durkheim, uno dei più noti esponenti delle teorie olistiche in sociologia, il manifestarsi della devianza e della sua controparte punitiva rievoca una sorta di rituale collettivo, in ultima analisi funzionale a saldare la struttura sociale nel suo complesso.
Tuttavia, con lo sviluppo della ricerca in ambito neuroscientifico, le teoria tradizionale della devianza subisce una radicale revisione. Si assiste, in particolare, ad uno slittamento della prospettiva da cui si osserva e si studia l’atto criminale, laddove il fenomeno deviante cessa di essere inteso all’interno di un approccio e di un modus operandi di tipo olistico, per essere analizzato all’interno di un modello localizzazionista tipicamente neuroscientifico: dal sistema in generale, l’attenzione viene spostata sulle sue parti costitutive, sui singoli individui o, meglio ancora, sui singoli cervelli che compiono i reati. Perciò, con il progredire delle conoscenze relative al funzionamento del cervello, il comportamento criminale assume sempre più le caratteristiche di una patologia, giacché l’atto deviante costituirebbe in sostanza il sintomo del funzionamento cerebrale difettoso dell’individuo.
Questa interpretazione deterministica dei dati neuroscientifici inclinerebbe pertanto a favore di una chiave di lettura alternativa della funzione della giustizia penale e degli istituti penitenziari. Se l’individuo/reo non è un soggetto libero di essere “buono o cattivo”, ossia di compiere coscientemente una decisione, poiché la sua condotta è in larga parte determinata da scompensi chimici e varianti genetiche su cui il soggetto non può esercitare alcun controllo, il retributivismo, la teoria della pena per cui chi compie reato merita sempre di essere punito, risulterebbe insensato e immorale, dal momento che non può essere considerato meritevole di punizione colui che non è in grado di esercitare il pieno controllo sui propri processi cognitivi, sui propri impulsi e sui propri atti.
È a partire da queste considerazioni che è possibile ipotizzare una naturalizzazione del consequenzialismo che si ponga l’obiettivo, sulla scorta di ciò che le neuroscienze ci indicano in merito al modo in cui il cervello dei criminali (mal)funziona, di riconsiderare la pena nella sua funzione rieducativa e preventiva. Naturalizzare il crimine, nel senso che di tale fenomeno se ne identificano le predisposizioni genetiche e i correlati malfunzionamenti cerebrali, implicherebbe pertanto una naturalizzazione del consequenzialismo, poiché, come si è già accennato, verrebbe meno quell’insieme di criteri affinché si possa ritenere pienamente imputabile il soggetto, condizione necessaria della concezione retributivistica della sanzione penale.
Accanto alla naturalizzazione dell’elemento soggettivo del crimine, tuttavia, i neuroscienziati possono contribuire a naturalizzare il fenomeno criminale in un secondo senso, ossia partendo dalla formulazione della domanda: perché se il reo è un soggetto patologico, e la patologia mentale è, da un punto di vista evolutivo, fortemente disadattiva, il comportamento criminale persiste?
Ci si può chiedere, in sostanza: per quale motivo il crimine continui ad esistere in quanto problema da arginare, anche se in un contesto sociale e cooperativo si sarebbe dovuto estinguere dal momento che costituisce forte svantaggio evolutivo? In altre parole, ci si chiede in che modo, posto che sia teoricamente possibile, il fenomeno deviante possa essere naturalizzato anche in virtù di una prospettiva olistica ed evolutiva.
La naturalizzazione del crimine dal punto di vista evolutivo
Se si assume che il crimine sia (almeno in parte) riconducibile a patologie psichiatriche, è legittimo porsi parallelamente il problema di una conciliazione tra teoria evolutiva e fenomeno deviante. Si tratta, chiaramente, di una questione di difficile risoluzione: le varianti ambientali, sociali e culturali potenzialmente in grado influenzare l’insorgenza del comportamento criminale si intersecano e si sovrappongono, anziché agire singolarmente, cosicché la devianza costituisce perlopiù un fenomeno multifattoriale.
Tra i vari elementi determinanti la devianza, tuttavia, la componente ereditaria è di indubbia rilevanza. I neuroscienziati, infatti, sanno che esiste una forte associazione tra determinati geni e la probabilità di sviluppare alcune patologie psichiatriche e, conseguentemente, di mettere in atto condotte antisociali. Un enigma evolutivo, si potrebbe dire: in che modo, infatti, l’evoluzione ha contribuito a selezionare i comportamenti socialmente adeguati per la cooperazione, ma non ha reso al contempo la devianza un vicolo cieco evolutivo?
Durisko e colleghi (2016) hanno proposto due spiegazioni alternative e opposte: secondo la prima ipotesi, le patologie psichiatriche potrebbero esistere “despite natural selection” (nonostante la selezione naturale) e sarebbero dovute a mutazioni casuali che si manifestano in maniera più rapida rispetto alla velocità attraverso cui opera, rimuovendo i tratti svantaggiosi della specie, la selezione naturale.
Le patologie psichiatriche sarebbero, per così dire, sviste evolutive, errori biologici privi di alcuna “funzione” vera e propria, ed esisterebbero solamente per accidente, perché il processo evolutivo non riuscirebbe ad eliminarle in tempo. Possiamo ritenere che sia questa, d’altronde, la visione implicita del crimine come patologia sottostante la naturalizzazione dell’elemento soggettivo del crimine. La devianza viene in sostanza considerata come il prodotto di meccanismi biologici difettosi.
La seconda ipotesi avanzata da Durisko et al. (2016), tuttavia, prevede che le patologie psichiatriche possano esistere e perdurare nel tempo “because of natural selection” (a causa della selezione naturale), ossia in quanto costituirebbero meccanismi di selezione bilanciante. In particolare, gli studiosi hanno considerato i seguenti meccanismi:
- pleiotropia antagonista: un unico allele può determinare molteplici effetti, benefici o dannosi (es. alcune forme di schizofrenia);
- vantaggio dell’eterozigote: la coesistenza di un allele di rischio e di un allele sano costituisce una strategia adattiva migliore rispetto a quella dell’organismo omozigote, ma troppi alleli di rischio possono causare la patologia (es. ansia, depressione, disturbo bipolare);
- selezione alternata: la selezione naturale procede talvolta favorendo, talvolta sfavorendo un determinato allele (es. disturbo antisociale di personalità, psicopatia);
- discrepanza evolutiva: un tratto un tempo adattivo si scontra con alcuni aspetti dell’ambiente moderno (es. alcune dipendenze, disturbo bipolare);
- adattamenti funzionali: tratti adattivi che ora sono culturalmente svantaggiosi (alcuni stati depressivi, dipendenza dalla nicotina).
La selezione bilanciante opererebbe in modo tale che la percentuale di alleli disadattivi (sempre relativamente ad un certo contesto ambientale) risulti troppo esigua per destabilizzare la sopravvivenza della specie, ma che sia sufficiente affinché possa tramandarsi di generazione in generazione, sebbene in una piccola parte della popolazione. In questo modo, l’evoluzione sembrerebbe procedere salvaguardando la variabilità genetica, ossia mantenendo strategie adattive alternative rispetto a ciò che costituisce la “norma” biologica.
Un’ipotesi, questa, che risulta molto simile all’intuizione di Durkheim, secondo cui il fenomeno deviante, inteso in una prospettiva macro-sociologica, non sarebbe una patologia ma un fenomeno funzionale alla sopravvivenza della società. Nei termini delle neuroscienze evolutive, tale intuizione verrebbe così esplicitata: le patologie psichiatriche alla base di certe predisposizioni a compiere reati sono residui di strategie adattive alternative; questi residui non si sono estinti nel corso dell’evoluzione perché maggiore è la variabilità genetica, maggiore è la possibilità che la specie possa sopravvivere in ogni contesto ambientale.
Conseguenze sul piano giuridico: coevoluzione tra crimine e diritto penale?
Partendo dal presupposto che naturalizzare la devianza da un punto di vista evolutivo non significa, com’è ovvio, giustificarla moralmente, tale approccio evolutivo può tuttavia costituire un valido strumento di comprensione del fenomeno criminale, una prospettiva olistica che può integrare, e non sostituire, l’interpretazione localizzazionista della neurocriminologia. Lo studio dell’evoluzione dei comportamenti antisociali può risultare inoltre fondamentale per la prevenzione del crimine, poiché scongiurerebbe l’eventualità che il sistema penale possa diventare in qualche modo obsoleto.
Si può infatti ipotizzare, come sostenuto ad esempio dallo studioso Paul Ekblom (1999), che crimine e giustizia possano essere intesi come fenomeni che si sviluppano in un continuo processo di coevoluzione. Il contesto ambientale influenza la struttura sociale e, di conseguenza, la norma sociale; al contempo, la selezione naturale “salva” le strategie adattive alternative, cosicché normatività, devianza e ambiente risultano elementi aventi dinamiche evolutive interdipendenti.
Se il crimine “evolve”, il sistema penale, suggerisce Ekblom, può fare altrettanto, e può farlo nell’ottica di prevenire il fenomeno deviante. La coevoluzione di giustizia e crimine sembra infatti analoga alla coevoluzione preda-predatore, così come a tanti altri tipi di coevoluzione esistenti in natura. In tal senso, studiare come il crimine può essere naturalizzato in senso evolutivo (come fenomeno che non rientra nella norma, ma che è a suo modo adattivo e pertanto evolve), potrebbe costituire un valido elemento per l’ideazione di sistemi di prevenzione del crimine che tendono a simulare la reazione delle prede nel contesto naturale.
Tra gli esempi proposti da Ekblom, vi sarebbe la possibilità di inserire dei punti deboli prestabiliti nei potenziali bersagli della criminalità, prendendo spunto dalla strategia della lucertola che perde la coda in caso di attacco di un predatore, ma anche l’idea di ingannare i delinquenti attraverso strategie di camuffamento, simulando l’effetto abbagliante di una mandria di zebre in fuga dai predatori.
La natura, in definitiva, offrirebbe un’ampia gamma di esempi di lotte evolutive da cui il sistema penale potrebbe trarre ispirazione per poter elaborare sistemi di prevenzione della criminalità in continuo aggiornamento.
Conclusioni
Si può considerare l’ipotesi di naturalizzare il crimine adottando due livelli di spiegazione differenti, ma complementari. Naturalizzare il crimine significa individuare i correlati neurobiologici della predisposizione alla devianza (modello localizzazionista), evidenziando la fallibilità di concetti come il libero arbitrio e l’imputabilità. Ma significa anche comprendere l’origine evolutiva dei geni difettosi e degli scompensi neurochimici di cui sono responsabili, stante il fatto che, sebbene siano tratti maladattivi, cionondimeno continuano a persistere.
Secondo alcuni studiosi, alleli che risultano disadattivi in alcuni contesti, si rivelerebbero adattivi in altri e la selezione naturale tenderebbe a prediligere la variabilità genetica a scapito della “perfezione”: maggiori sono le alternative evolutive, maggiore è la probabilità di sopravvivenza della specie nei contesti ambientali più svariati. Si può così suggerire l’ipotesi della coevoluzione millenaria tra giustizia e crimine, che ricalca quella naturale tra prede e predatori, e far sì che il diritto penale, analizzandone le dinamiche, ne tragga ispirazione al fine di aggiornare e migliorare la funzione preventiva della sanzione.
Flavia Corso
Bibliografia
- Durisko, Z., Mulsant, B. H., McKenzie, K., Andrews, P. W. (2016). Using evolutionary theory to guide mental health research. The Canadian Journal of Psychiatry, 61(3), 159-165.
- Ekblom, P. (1999). Can we make crime prevention adaptive by learning from other evolutionary struggles?. Studies on crime and crime prevention, 8, 27-51.
Photo by Anne Nygård on Unsplash
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