A sostenerlo senza mezzi termini dalle pagine del Guardian e del Daily Mail è il giovane ricercatore di Neuroetica dell’Università di Oxford Christopher Gyngell. Ed è una delle poche – se non l’unica – voce fuori dal coro della reazione seguita alla pubblicazione su Protein & Cell (Springer) del primo studio in cui si è tentato di “manipolare” il DNA di embrioni umani. Condotto in Cina alla Sun Yat-sen University di Guangzhou e rifiutato sia da Nature che da Science (dice Gyngell) lo studio cinese ha sollevato un polverone in tutto il mondo.
Il National Institute of Health (NIH) americano ha in questi giorni ribadito decisamente il suo no al superamento della linea di non ritorno, con una dichiarazione ufficiale in cui ha messo nero su bianco che “non finanzierà alcun uso di tecnologie di modifica dei geni negli embrioni umani”. Da Nature, Edward Lanphier e colleghi contrappongono “seri rischi” ai “tenui benefici terapeutici” della modificazione genetica, chiarendo che “i precisi effetti della modificazione genetica di un embrione possono essere conosciuti soltanto dopo la nascita”. Su Science David Baltimore e colleghi riprendono una discussione aperta a gennaio al California Insitute of Technology (Caltech) sulle “implicazioni scientifiche, mediche, legali ed etiche di queste nuove prospettive”.
Ma Gyngell incalza esortando a non perdere di vista l’obiettivo terapeutico discutendo di cose tanto improbabili quanto inutili come i designer babies (i bambini “su ordinazione”), perché “la capacità di intervenire in maniera precisa e controllata su ogni specifica area del genoma sbloccherebbe l’accesso a un modo completamente nuovo di combattere le malattie”. Insomma, imponendo vincoli troppo rigidi ci staremmo precludendo la possibilità di poter trovare un giorno le cure per tante patologie devastanti nelle quali la genetica gioca un ruolo importante e a volte decisivo “come la malattia di Tay-Sachs, che lascia sviluppare normalmente il bambino fino ai sei mesi, per poi riservargli progressiva sordità, cecità, blocco della deglutizione, paralisi e infine la morte entro i quattro anni”.
Per non parlare dei “circa 7,9 milioni di bambini che ogni anno nascono con una grave condizione a significativo contributo genetico che potrebbe essere corretto in fase embrionale” e di tante malattie croniche come la fibrosi cistica, il diabete, la talassemia, l’Huntington, alcune forme di Alzheimer, che un domani grazie a questo tipo di ricerche si potrebbero prevenire. Certo le tecnologie attuali non sono ancora pronte all’uso, ma il modo migliore per perfezionarle, dà a intendere Gyngell, è lasciar fare ai ricercatori il loro lavoro, responsabilmente e nel rispetto di una regolamentazione che non deve mancare, potendo però utilizzare embrioni umani, quelli “anormali che non potrebbero comunque nascere, come hanno fatto i cinesi”. Il dibattito sulla “ingegnerizzazione umana” è aperto ed è davvero difficile prevederne gli sviluppi.
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