>Non ho la pretesa di descrivere una nuova sindrome, voglio semplicemente fare delle riflessioni su quello che sta accadendo ad alcuni miei clienti. L’uscita di diversi libri che parlano di Steve Jobs, della sua vita, dei suoi successi, del suo metodo di lavoro hanno letteralmente elettrizzato il popolo dei manager alla ricerca di se stessi. Evidentemente i classici modelli proposti da università e scuole di management non bastano più.
Ma del resto anche Steve Jobs stesso aveva sentito la necessità di crearsi uno stile diverso, e c’è riuscito perfettamente. E’ stato definito “l’uomo che ha inventato il futuro”. La sua visione ha anticipato i tempi per la sua lungimiranza, ma soprattutto per come ha saputo genialmente unire valori personali a quelli aziendali.
In questa crisi che sembra essere tanto globale quanto inglobante, tutti cercano un modello per restare a galla o, meglio ancora, per nuotare. Nelle mie sessioni di counsleing ho sempre più manager che vedono il bilancio di carriera come un modo per risalire la china, cercare la novità o riciclarsi preparandosi al peggio.
Tutti sono accomunati dalla necessità di capire quanto hanno imparato, quanto possono ancora imparare e, soprattutto, se riusciranno a sopravvivere a questo tsunami che sta investendo tutti. Purtroppo chi è impegnato in questa ricerca molto spesso finisce con il non pensare con la propria testa: se il nuovo modello è accettato acriticamente non è la soluzione ma è solo una sostituzione, una sorta di trasloco di idee.
Quanto c’è di personale in tutto questo? E’ proprio Steve Jobs a dircelo in modo chiaro: “Dovete credere in qualcosa: l’istinto, il destino, il karma, qualsiasi cosa. Questo approccio non mi ha mai tradito e ha fatto la differenza nella mia vita”. È questo “credere” che fa la differenza, ma questo “credere” presuppone un’altra capacità: quella di riflettere per elaborare idee.
Tra i tanti che mi stanno consultando per fare il punto della loro carriera ho difficoltà a trovare qualcuno che dedichi del tempo alla riflessione o alla meditazione: l’ansia del fare coglie tutti come se per essere Steve Jobs bastasse lavorare dodici o più ore al giorno.
Le persone sono normalmente attratte dai leader, dalla loro capacità di rendere tutto semplice e lineare, di risolvere facilmente i problemi e di creare spirito di motivazione e aggregazione.
In realtà anche i leader per arrivare dove sono hanno lottato strenuamente, imposto le loro idee, contrastato in modo determinato i più conservatori e affascinato i più progressisti. Dietro a tutto questo sta la grande abilità dei leader a capire gli altri e le loro necessità, spesso prima ancora che questi le comunichino. Come? Attraverso una grande sensibilità e intuizione. Le persone hanno bisogno di essere orientate, capite, ascoltate e dirette, ma senza prevaricazioni. C’è un divario tra ottenere qualcosa con il consenso e ottenerlo con la forza. Il leader lo sa e per questo ci lavora costantemente.
Emulare Steve Jobs non è facile, non tanto per i risultati da ottenere, ma perché è impossibile diventare qualcun altro; come per altri leader è la tenacia con cui si è dedicato a tutto ciò in cui credeva ad averlo reso quello che è. Esistono molti modi per emergere, ma quello vincente che porta il leader a prevalere è sempre un modello altruistico: le idee vengono sposate e condivise da tutto il gruppo perché sono pensate a priori per il gruppo.
I manager che incontro spesso non sanno imporsi, evitano le decisioni per paura dell’impopolarità o dell’insoddisfazione dei propri datori di lavoro. Al contrario il leader non teme né l’impopolarità né le critiche. A volte questi personaggi sono schivi, poco propensi ai bagni di folla o a tutto ciò che nell’immaginario collettivo rende diversa una persona di successo da una persona qualsiasi. Forse il segreto sta nell’essere convinti di quello che si sta facendo, della bontà dei propri prodotti o della propria idea: il resto viene quasi da sé come un automatismo.
Per questo il mito di Steve Jobs o di tanti altri continuerà ad affascinare manager di ogni tipo, ma quello che serve e che molto spesso manca è la predisposizione naturale alle relazioni umane e alla ricerca del sé. Tutti i grandi leader hanno dedicato tempo e lavoro ad elaborare un progetto specifico e mirato che è diventato parte di loro stessi; ma tutto questo è possibile solo se si conosce il proprio sé in modo approfondito, se abbiamo studiato i pregi e difetti che ci rendono diversi dagli altri, se abbiamo affinato le qualità necessarie per saperci imporre alle persone come la pazienza, la capacità di ascolto e soprattutto la tenacia.
Per capire se abbiamo o no la stoffa del leader è sufficiente vedere come affrontiamo una dieta o come rispondiamo alle responsabilità della nostra vita e del nostro lavoro: se siamo titubanti o poco determinati dovremo lavorare più duramente e arrivare anche a piegare il nostro carattere fino a trasformarci totalmente o a non riconoscerci più. A questo punto chiedo sempre alle persone se ne vale la pena: un conto è migliorare i nostri punti di debolezza, acquisire una maggiore autostima, orientarsi a stare meglio con se stessi e con gli altri e un conto è voler fare una rivoluzione totale dalla quale uscire completamente diversi. Le persone hanno bisogno di tempo, piccoli obiettivi progressivi, mete ambiziose ma alla portata delle proprie possibilità, altrimenti quello che si va a produrre è la totale insoddisfazione nel mancato raggiungimento degli scopi.
Anche la rete delle relazioni ha il suo peso: spesso chi vuole cambiamenti profondi è perchè non si sente realizzato nelle proprie relazioni interpersonali o in azienda con colleghi, superiori e collaboratori. Ma su quali basi misuriamo anche questa soddisfazione? Anni fa era di moda portare l’orologio sopra il polsino della camicia a imitazione di un noto imprenditore italiano, poi è arrivato il momento dello yuppismo dove l’imperativo categorico era lavorare indefessamente in giacca blu e cravatta a righe e dimostrare amore solo per il proprio ruolo. Ora mi aspetto sfilate di dolcevita neri e linearità essenziali, discorsi a braccio e voglia di platee.
Steve Jobs è quello che è perché non ha mai voluto essere niente di diverso: non credo servano le cronache dei giornali o la realizzazione di un prodotto da fantascienza per essere qualcuno: basta essere se stessi e rendersene conto, aspirare alle cose attraverso le nostre capacità, sapere chi siamo e cosa vogliamo con sereno ottimismo; ma per fare questo serve tanta autoanalisi e tanta riflessione. Non serve essere Steve Jobs, servono idee nuove, idee rivolte agli altri e tanta voglia di volersi bene. Questo Steve Jobs lo sa… E lo fa.
Paolo G. Bianchi
Antropologo, Counselor
Bibliografia
- William L. Simon, Jay Elliott: Steve Jobs. L’uomo che ha inventato il futuro, Hoepli 2011
- Alexander Lowen: Paura di vivere, Astrolabio 2008
- Zygmunt Barman: L’arte della vita, Laterza 2009
- Krishnananda Amana: Fiducia e sfiducia, Feltrinelli 2010
Non è lui al centro perché rende protagonista il suo prodotto, non ha tempo per darsi arie perché il prodotto è il suo amore, perché dedica tutto al suo amore. Questo è il successo di Steve: “il prodotto è la prima donna”, nessun altro è una star alla Apple. Tutti nel mirino lavorano per il cliente, per dare un prodotto ottimo, unico. Questo è amore. L’altra parte che completa la radice “Apple ” è la “spiritualità” il pensiero spirituale che comprende, giustifica, e ha compassione nel lavoro verso tutti i collaboratori come una famiglia,come fratelli. Questa è la vera innovazione benedetta da Dio, questo è il compito che Dio ha dato a Steve jobs assumendolo come servo per mostrare al mondo imprenditoriale mondiale come si può’ lavorare senza la furbizia, senza modi di basso grado di maturità, nell’onestà. Chi lavora così è benedetto da Dio… E gli altri? Gli altri poco a poco si inaridiscono nella loro “furbizia”. Bravo paolo.
Per formazione sono un fisico (ora faccio altro). Quando frequentavo gli ambienti scientifici o tecnici, non mi è mai capitato di incontrare nessuno che volesse assomigliare ad Einstein. Anche se tutti avevamo un suo poster da qualche parte. Eravamo forse consapevoli ognuno dei propri limiti, con quelli ci facevamo i conti, ed entro quelli, ognuno a suo modo, cercava di essere creativo, innovativo. La sindrome che descrivi un pò mi intristisce: avere una certa seniority e non avere ancora fatto i conti con se stessi… non avere ancora trovato il proprio modo di essere creativo, innovativo, per quanto in piccolo, pur possedendo tutto il bagaglio della propria professione (altrimenti non saresti un manager!). Piuttosto penoso. Forse sarebbe meglio farsi da parte. Non è cosa per ni se a 40, 50 o più anni ancora vogliamo essere SJ…
Sono stato indirizzato a questo testo e l’ho letto con grande piacere ed interesse. Quindi sono grato alla opportunità che mi è emersa di farlo. Ha aggiunto qualcosa ai miei usuali pensieri. Grazie.
Complimenti per l’articolo. Veramente interessante e ben analizzato. Aggiungo una riflessione: pur con la dovuta ammirazione per l’eccezionale personaggio, mi sembra si sia arrivati all’agiografia. Steve Jobs è grande in quello che hai descritto, ma chi ci ha lavorato insieme e lo conosce bene ne dipinge un ritratto completamente diverso. Insomma… non sempre il pubblico coincide con il privato e in questa fase di esaltazione si dimenticano i suoi difetti proprio nel rapporto con le persone, spesso anche piuttosto pesanti. Direi che siamo nella fase in cui ci si dimentica che è una persona che ha fatto qualcosa di eccezionale, ma è una persona.
Mi è piaciuto leggere questo articolo e leggo volentieri tutti i tuoi post, condivido il tuo pensiero.