MELPIGNANO – “Durante il rituale la donna può comportarsi pubblicamente da isterica, arrivando a perdere la propria identità. C’è quindi una morte simbolica seguita da una rinascita a vita nuova, che è la guarigione…” [1]. Emmanuela Marrone alla Notte della Taranta. Spaventatissima, di fronte alla “sua” gente. Ha dissociato la presenza scenica, scardinando la recita, mostrando infine quel che l’umano ha di più segreto a se stesso: l’autenticità sciamanica.
“Affinché si possa conoscere l’essenza dell’attività trascendentale dello spirito, bisogna non considerare mai questo, che è spettatore, dal di fuori; non bisogna proporselo mai, esso stesso, come oggetto della nostra esperienza; esso stesso spettacolo” (Giovanni Gentile) [2]
Sguardo fisso senza fuoco, movenze dissincrone, irrecuperabile fuori tempo a superamento di partiture precotte, sopra le righe tonali (“overtone”), braccia alzate a crocifissione del personaggio (che sta stretto come la camicia bianca strappata di dosso a furia di gesti rabbiosi), plasticità di profilo ambiguo mascherato dal capello da buttarsi sempre indietro – compulsivamente, non ritualmente – di cui forse farebbe volentieri a meno (“decidere di radersi i capelli…” [3]).
Gilbert Durand, in un ricchissimo volume sulle “Strutture antropologiche dell’immaginario” – riproposto nel 2009 al lettore italiano dalle Edizioni Dedalo di Bari – al proposito ci ricorda, richiamando Bachelard, che è proprio il movimento della capigliatura (e non la forma) a “suscitare l’immagine dell’acqua corrente”; poco più oltre precisando che “la prima qualità dell’acqua cupa è il suo carattere eracliteo: essa è un divenire idrico carico di spavento”, anzi “è l’espressione stessa dello spavento”, per arrivare a concludere infine, nel capitolo dedicato ai simboli nicotomorfi, dopo una serie di interessanti rimandi che non riusciamo a sviluppare in questa sede, che “l’acqua notturna […] è dunque il tempo” [4].

Sappiamo altresì bene – come scrive Leonella Cardarelli ne “Il tarantismo tra sciamanesimo e mito della dea madre” (Voci dal Sud, Anno III, nr. 8, Agosto 2007) – che “questi rituali, per funzionare, devono essere condivisi da tutto il gruppo. Essi fanno parte di un universo mitico magico religioso che deve essere condiviso da tutta la comunità di riferimento. E’ tutto il gruppo che permette alla donna di guarire, oltre che la danza. Il gruppo sostiene il rituale, ci crede, si ferma nella sua attività per tutto il tempo necessario al rito, il gruppo si modifica in rapporto al soggetto per farlo guarire. Se la donna si sente alienata, il gruppo le permette di esternare il suo dolore durante il rituale, di accettarla nel gruppo e di aiutarla” [5].
Ma l’altro giorno il gruppo non ha condiviso il rituale, la comunità non ha condiviso l’universo magico, non si è modificato in rapporto al soggetto, non le ha permesso di esternare il suo dolore, non le ha permesso di guarire… Assenza ritualistica totale – se non del rito puramente estrinseco e contingentato dello spettacolo contemporaneo (che qui non può fare testo). Allora Emma ha strappato magistralmente il copione, portando in scena la propria aliena dissonanza di “alienata” sì ma in aggiunta “straniera in patria”, in una accettazione d’angoscia al massimo grado, che lacera le carni e i visceri, nel mentre il “suo” Salento si ritrovava unito, invece che nella danza, nell’innalzare tavolette di altro rito, secolarizzante il senso autentico di ciò che avrebbe potuto essere l’esperienza nictomorfa… Lei, d’istinto rispondendo con l’irritualità più irrituale, sacralizzando dunque sé, in puro slancio eroico, sopravveniente proprio del quando “gli dei se ne vanno, gli arrabbiati restano!” [6]

Si è ritrovata immensamente sola, Emma, all’apice atteso della Notte della Taranta. Sola, nella sua nudità simbolica di umana, non potendo nemmeno più contare “sull’aiuto del gruppo” nell’evocare la drammaticità del mito, a un certo punto lasciando andare definitivamente la rappresentazione per ritornare completamente “in sé”, in quell’in-sé incurante del dover-essere-per-altri, rendendosi nel fatto l’unico (l’ultimo) vero depositario de “Lu rusciu te lu mare”, canto dell’esistenza straboccante, al netto dell’orchestra delle viole dei cori dei tambureggiamenti funzione (finzione) ecc.
Ormai in una dimensione oltre confine, indifferente al tempo dello scolastico virtuosismo, seguendo invece “alla lettera” il proprio tempo-pulsare, facendosi questo stesso pulsare viscerale, lasciandosi scivolare ancora più giù dentro di sé [7], di conseguenza, fra la vita e la morte dell’attorialità professionalizzante. Ecco che a un certo punto si inginocchia, di fronte a quel “pubblico” che l’attende soltanto come “dea madre” e non l’abbraccia come si accoglie chi ha avuto il coraggio di accettare la sfida, di farsi “viaggiatore fra i mondi”, in solitaria davvero in mezzo ai flutti tormentosi de “lu mare”, e che – nonostante tutto – dopo il viaggio ritorna pur anche alla “comunità di riferimento”; e può guarire perché è guarito…
Distesa, infine, con volontarie tarantolate movenze corrispondenti a un volere distanziante nel mentre si va avvicinando a chi l’avrebbe “immo(rta)lata” in camere digitali, poco impressionabili perché già impressionate dall’oltremondano presente prima ancora di essere in-presenza [8], è poi sulle forzature vocali involontarie (la voce che si espande in autonomia sonora nella cavità fonatoria, sdoppiandosi in ancestrali armoniche [9]) la testimonianza dell’esserci reale dell’altro-da-sé (il mistero dell’esistenza), incomprimibile nella spettacolarizzazione.
Così, di fronte alla negazione totale di guarigione (finalmente!),“questa” donna che rifiuta il ruolo di dea madre ci omaggia in modo esemplare della sua disposizione “isterica” (non rappresentata, vissuta nel profondo, in solitudine assoluta), vero e proprio “dono”, nell’umana grazia di chi sa che, proprio lì nel fondo senza fine, è l’assenza dalla/della scena: non più “mettere in scena” ma “togliere di scena” appunto (come seppe solo anticipare un altro degli “ultimi”, forse l’ultimo dei grandi, che ebbe il coraggio di esplicitare – se mai ce ne fosse stato bisogno – la propria inesistenza in vita [10]), ma definitivamente.
In un rantolo finale, straziante, non liberatorio.
Marco Mozzoni
Emma alla Notte della Taranta 2013
Lu rusciu te lu mare
Nu giurnu scei ‘ncaccia a li patuli
e ‘ntisi na cranonchiula cantare.
A una a una le sentia cantare
ca me pariane lu rusciu te lu mare.
Lu rusciu te lu mare è troppu forte
la fija te lu re si ta la morte.
Iddha si ta la morte e jeu la vita
la fija te lu re sta se marita.
Iddha sta se marita e jeu me ‘nzuru
la fija te li re porta nu fiuru.
Iddha porta nu fiuru e jeu na parma
la fija te lu re sta va ‘lla Spagna.
Iddha sta va la Spagna e jeu ‘n Turchia
la fija te lu re è a zita mia.
E vola vola vola vola vola
e vola vola vola palomba mia
ca jeu lu core meu te l’aggiu ddare
ca jeu lu core meu te l’aggiu ddare.
Alla Bua, Giffoni Film Festival 2002
Il Rumore del Mare
Un giorno andai a caccia per le paludi
e udii una ranocchia gracidare.
A una a una le sentivo cantare
mi sembravano il frastuono del mare.
Il rumore del mare è troppo forte
la figlia del re si dà la morte.
Ella si dà la morte, ed io la vita
la figlia del re ora si marita.
Ella si marita e io mi sposo
la figlia del re porta un fiore.
Ella porta un fiore ed io una palma
la figlia del re parte in Spagna.
Ella parte in Spagna ed io un Turchia
la figlia del re è la fidanzata mia.
E vola vola vola vola vola
e vola vola vola palomba mia
che io il cuore mio te le devo dare
che io il cuore mio te le devo dare
Note:
- Leonella Cardarelli, “Il tarantismo tra sciamanesimo e mito della dea madre”, in “Voci dal Sud”, Anno III, nr. 8, Agosto 2007
- Giovanni Gentile, “Opere III. Teoria generale dello spirito come atto puro”, Casa Editrice Le Lettere 1987 (prima edizione: 1916)
- CCCP, “Io sto bene”, in “Affinità-divergenze fra il compagno Togliatti e noi – Del conseguimento della maggiore età”, Attack Punk Records 1986 (vinile)
- Gilbert Durand, “Strutture antropologiche dell’immaginario. Introduzione all’archetipologia generale”, Edizioni Dedalo 2009
- Vedi nota [1]
- Area, “1978 Gli dei se ne vanno, gli arrabbiati restano!”, Ascolto 1978 (vinile)
- “In interiore homine habitat veritas” diceva Agostino
- Sul concetto di presenza, interessante al proposito il “nucleo valido” de “Il mondo magico. Prolegomeni a una storia del magismo” di Ernesto de Martino (uscito nel 1948 “ma preparato già a partire dal 1941” come sottolinea Cesare Cases nell’edizione Bollati Boringhieri del 1997) cioè – a detta dello stesso Autore – la “tesi della crisi della presenza come rischio di non esserci nel mondo [corsivo nostro – NdR] e la scoperta di un ordine di tecniche (alle quali appartengono magia e religione) destinate a proteggere la presenza dal rischio di perdere le categorie con le quali si innalza sulla cieca vitalità e sulla ingens sylva della natura, e destinate altresì a ridischiudere mediatamente il mondo dei valori compromesso dalla crisi” (Universale Bollati Boringhieri, 2007).
- L’esplorazione delle potenzialità vocali attraverso la pratica del “canto armonico” secondo la tradizione mongola dei Tuva (overtone singing) potrebbe essere per Emma una scoperta illuminante…
- Carmelo Bene, “Opere”, Bompiani 2002
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