Tra la fine degli anni 90 e gli inizi del 2000 qualcosa in America è andato storto. Stiamo parlando di omicidi di massa. Da una media di tre episodi all’anno, la frequenza è schizzata alle stelle, con un evento ogni 12 giorni, come riportano Towers et al. (2015). Non va tanto meglio per le sparatorie nelle scuole, che avvengono in media ogni 31 giorni.
Cosa significano questi numeri da brividi? Dove andare a cercare le possibili cause? Che ruolo hanno i media in tutto questo? Secondo una ricerca di Schildkraut (2014), i media si concentrano sulla problematica del controllo delle armi da fuoco, strumento prediletto dalla quasi totalità dei killer: negli ultimi otto anni l’attenzione della stampa su questo aspetto è raddoppiata, dal 40% all’80 per cento. È diminuito invece, dal 65% al 35%, l’interesse per i disturbi mentali di cui spesso sono “vittima” gli assassini.
Un altro fattore, di grande importanza, non prendono proprio in considerazione, cioè: loro stessi e la loro influenza sul fenomeno. A “far notizia” è il crimine violento, che da solo occupa la metà delle informazioni circolanti. Come mai i giornalisti hanno bisogno di riempire le pagine con storie di maniaci e di assassini? Forse perché – come emerge da uno studio di Buss (2005) – ad avere fantasie omicide sarebbero ben 9 uomini su 10 e le donne non sarebbero da meno. Insomma, è come se l’umanità amasse accarezzare, consciamente o meno, il proprio lato oscuro.
Ci sono molteplici fattori – interni ed esterni alle persone – che concorrono a delineare quello che possiamo chiamare il “profilo” dell’omicida di massa. In America sono perlopiù individui bianchi di sesso maschile tra i 18 e i 25 anni, che reputano dominanza e potere un proprio diritto, negato loro per qualche ragione dalla società. In genere si tratta di persone isolate socialmente, che spesso soffrono di grave depressione e altri disturbi. A tutto ciò va aggiunta una forte tendenza narcisistica e la disperata e distorta ricerca di attenzione, di “notorietà”.
I media hanno il delicato compito di informare la popolazione di ciò che le capita intorno e dovrebbero tenere sempre presente la loro immensa capacità seduttiva. Se è di fama che sono assetate queste persone, i mezzi di informazione costituiscono dei veri e propri trampolini per il “successo”. Non è un caso che il numero degli omicidi di massa siano cresciuti così rapidamente in concomitanza con la diffusione capillare dei social media e con la recente cattiva abitudine di concentrarsi in maniera maniacale sui dettagli della vita degli assassini.
Come ci informiamo di un crimine? La prima settimana ci soffermiamo avidamente sui dettagli degli individui coinvolti nell’omicidio, mentre solo durante la seconda, se non addirittura la terza, iniziamo ad avere interesse anche per le cause e l’impatto sociale della vicenda (Schildkraut, 2014). Un quadro ricco di particolari stimola facilmente il cosiddetto copycat effect o “effetto copione”: informazioni come il nome dell’omicida, la sua vita privata, il suo passato, conferiscono visibilità alla sua “immagine”, diventando così, per chi ha già una particolare fragilità, un modello da emulare.
I ricercatori della Western New Mexico University, Jennifer Johnston e Andrew Joy, ritengono sia giunto il momento di definire delle linee guida per il mondo dell’informazione, allo scopo di stabilire in che modo e quanto questo tipo di notizie debba essere approfondito, analogamente a quanto è stato già fatto per la comunicazione dei dettagli degli omicidi delle “star”, che in passato aveva innescato una serie di drammatiche imitazioni.
Andando alla ricerca di dati che mettano in relazione media e omicidi di massa, è facile rimanere disorientati dalla quantità di informazioni discordanti che si possono trovare. Gli stessi numeri qualche volta ingannano…
Un esempio è il caso del “Mother Jones”, un magazine americano, i cui dati sembrano mostrare un aumento degli omicidi di massa a partire dall’anno 2012. Prima di tale momento, la rivista considerava omicidio di massa l’uccisione di quattro o più individui; dopo il 2012, cambiati i parametri, il numero minimo di vittime necessarie a un omicidio per poter essere considerato “di massa” scende a tre, portando così a un ovvio aumento dei casi rilevati.
L’ambiguità può dipendere quindi da una questione di classificazioni e di definizioni non universali, modificate nel tempo. Ma può dipendere anche dal differente metodo con cui viene condotta una ricerca. È questo il caso di Fox & Delateur (2013) e di Meloy (2014), per i quali gli omicidi di massa non sarebbero per niente in crescita. Da una lettura più approfonditaa dei loro studi, però, si scopre che il dato finale che loro considerano deriva da una somma di tre sottogruppi: omicidi per ragioni criminali, omicidi per liti domestiche e omicidi “randomici” (quello che non rientra nelle prime due categorie).
Guardando solo il dato complessivo, che è quello più evidente, dunque, non emerge un trend in aumento; ma, andando nello specifico, pur essendo vero che gli omicidi legati a crimini o a problemi familiari diminuiscono nel tempo, quelli “randomici” risultano invece triplicati negli ultimi 15 anni. La separazione delle tre categorie indicate non è solo utile alla chiarezza di lettura dei dati, ma è anche fondamentale per riuscire a mettere in evidenza l’aspetto forse più importante: capire le cause per poter fare fronte al fenomeno.
Francesca Gallo
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