Un articolo pubblicato su Nature a firma di Kerri Smith (K. Smith, Brain imaging measures more than we think, Anticipatory brain mechanism may be complicating MRI studies, Nature, Jan 2009) mostra come la risonanza magnetica funzionale (fMRI) sia in grado di misurare non solo quello che il cervello sta facendo, ma anche quello che il cervello sta per fare. Così Karen Hopkin, editor di Scientific American, apre questa settimana il podcast 60-Second Science, dedicato alle nuove scoperte nel campo della metodica della neuroimmagine (K. Hopkin, Does fMRI See the Future?, Sci Am, Jan 2009).
Per decenni – spiega la Hopkin – gli scienziati hanno usato una tecnica di immagine chiamata risonanza magnetica funzionale (fMRI) per mostrare il cervello in azione. Lo studio pubblicato il 21 gennaio su Nature suggerisce che la fMRI potrebbe mostrare più di ciò che il cervello sta facendo, cioè ciò che il cervello si accinge a fare. La spiegazione sta nel fatto che gli studi a risonanza magnetica funzionale assumono che il flusso di sangue del cervello correla con l’attività dei neuroni. Le cellule cerebrali attive hanno bisogno di nutrienti, che vengono loro portati da sangue fresco ossigenato. Nel nuovo studio i ricercatori dimostrano che la fMRI rileva anche un aumento del flusso ematico in regioni del cervello non attive, ma che lo diventeranno in un breve arco temporale. Nello studio sperimentale i ricercatori hanno insegnato a primati non umani a eseguire uno specifico compito visivo, scoprendo che, anche quando gli animali erano seduti al buio in attesa dell’inizio del test, la fMRI rilevava un aumento del flusso ematico nella corteccia visiva delle scimmie.
La risonanza magnetica funzionale può dunque essere più interessante di quanto fino ad ora si è pensato, sottolina la Hopkin. E conclude: “Gli scienziati potrebbero gurdare ai dati ottenuti con fMRI in maniera troppo semplicistica. La fMRI potrebbe non misurare esattamente ciò che sinora si pensava misurasse. Che cosa succederà adesso?” Kerri Smith sembra non avere dubbi in proposito quando afferma: “le tecniche più popolari di neuroimmagine potrebbero aver disegnato un quadro fuorviante dell’attività del cervello”.
Sono solo geniali provocazioni o stanno veramente per andare in frantumi i fondamenti della metodologia della ricerca neuroscientifica degli ultimi 20 anni? La controversia – anche in questo caso – è aperta.
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