PAVIA – Possiamo “leggere la mente” con gli strumenti di neuroimaging oggi abbondantemente a nostra disposizione? E’ il tema che questa sera ha affrontato al Collegio Ghislieri di Pavia il neurologo Eraldo Paulesu, professore ordinario di psicobiologia all’Università di Milano Bicocca, in un incontro con la stampa organizzato all’interno del corso residenziale per giornalisti scientifici OpenLab 2009.
“E’ un tema complesso – ha detto Paulesu – e in realtà, come dice Chris Frith, noi leggiamo sempre la mente degli altri: nelle nostre relazioni interpersonali, cercando di predire gli stati d’animo e le intenzioni comunicative dei nostri interlocutori, non necessariamente per trarne vantaggio, ma per entrare in un contatto efficace di comunicazione”.
Il cinema è ricco di situazioni in cui gli attori dimostrano esperienza in questa “abilità:” un esempio è sicuramente la famosa scena del film Taxi Driver in cui Robert De Niro “anticipa” magistralmente un conflitto immaginandosi “botta e risposta” le reazioni dell’altro.
Oggi con le tecniche di neuroimmagine possiamo individuare le aree del cervello implicate in questo processo di mentalizzazione, cioè le sue basi neurofisiologiche. Recenti studi hanno mostrato che le regioni cerebrali che si attivano durante la rappresentazione dello stato mentale altrui sono le stesse che si attivano durante l’introspezione, allocate nella corteccia prefrontale.
“Ma questo non è da intendersi come la capacità di entrare dentro la mente del nostro prossimo, perché ci sono problemi di non isomorfismo: localizzare una regione cerebrale non vuol dire decifrare il contenuto di uno stato mentale…”, ha prontamente sottolineato Paulesu. In altri termini, attraverso la “lettura” dei pattern di attivazione cerebrale, possiamo “vedere” se la persona sta immaginando case o volti, ma non a quale casa o a quale volto sta pensando. Dunque, “se possiamo in certo senso leggere la mente, non possiamo leggere nella mente”.
Paulesu ha poi spiegato l’utilità delle tecniche neurofisiologiche nel contesto clinico, particolarmente nel caso di pazienti che non sono più in grado di comunicare con l’esterno nonostante mantengano uno stato di vigilanza: “risulta di estrema utilità testimoniare la presenza di attività mentale in un paziente ‘ingabbiato’ nel proprio corpo non più responsivo agli stimoli”. Famosi in questo ambito gli studi di Adrian Owen.
In merito alle possibili applicazioni medico legali forensi, come ad esempio nella detezione della capacità di mentire di soggetti sottoposti a processo penale o nel caso dell’utilizzo della risonanza magnetica funzionale nel contesto del “testamento biologico”, Paulesu ha consigliato “cautela, al momento, perché una possibile applicazione del neuroimaging nel campo forense presenta ancora limiti enormi, dovuti principalmente alla variabilità interindividuale, alla grande quantità di falsi positivi e di falsi negativi riscontrati e via discorrendo”.
Rispondendo a una domanda relativa all’attuale accuratezza diagnostica dello stato vegetativo e dello stato di minima coscienza, messa recentemente in discussione da uno studio di Joseph Giacino e colleghi secondo il quale il 40% dei pazienti con diagnosi di “stato vegetativo” sarebbe in realtà, seppur minimamente, cosciente, il professor Paulesu si è dichiarato “completamente d’accordo” sull’utilizzo di tecniche innovative di assessment neurocomportamentale capaci di superare i limiti della valutazione clinica tradizionale, sottolineando l’importanza dell’adozione di strumenti più efficaci di valutazione dello stato dei pazienti in coma, “particolarmente nel contesto della presa di decisioni in merito agli interventi riabilitativi, in modo da riuscire a investire, in un mondo di risorse limitate, maggiori sforzi riabilitativi sui casi che sembrano avere qualche probabilità in più di riemergere”. “D’altronde – ha concluso Paulesu – è proprio questo il concetto di triage che si applica in pronto soccorso e in medicina di guerra”.
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