Quando gli umani fanno gli struzzi

C’è chi di fronte alle difficoltà agisce in modo reattivo, chi cerca una strategia da applicare, chi cerca una mediazione e chi si nasconde evitando di accettare le proprie responsabilità. Tanti modi di reagire ognuno dei quali produce conseguenze che possono ripercuotersi sugli altri oltre che su se stessi. A volte chi si nasconde è proprio chi invece dovrebbe dirigere l’azione: il risultato? Un disastro.

Da piccolo mi hanno insegnato che lo struzzo quando ha paura o deve affrontare delle difficoltà, essendo un animale indifeso, non può far altro che nascondere la testa sotto la sabbia pensando in questo modo di non essere visto e di riuscire a schivare il pericolo.

In realtà non è proprio così. Lo struzzo, l’uccello più grande esistente sul pianeta, può correre molto velocemente per difendersi e sfuggire ai predatori, ha una forza incredibile nelle zampe per poter sferrare colpi e un becco altrettanto micidiale. Quindi non è proprio un animale del tutto indifeso.

Il modo di dire “fare lo struzzo” deriva invece da un altro comportamento: in certe situazioni, lo struzzo, vista la scarsità nel suo habitat di veri e propri ripari, si abbassa completamente al suolo, fa strisciare collo e testa sino a terra e, rimanendo immobile, cerca di assomigliare il più possibile a un cespuglio.

Comunque sia, nell’immaginario collettivo si comporta come lo struzzo quella persona che fa finta di non vedere le difficoltà per cercare di evitarle e per non assumersi così le proprie responsabilità.

Devo dire che incontro molte persone che si comportano i questo modo e, occupandomi di counseling anche in ambito formativo e aziendale, vi posso confermare che, spesso, con il loro atteggiamento creano situazioni difficilmente gestibili.

A volte, “fanno lo struzzo” persone che sono tendenzialmente accondiscendenti, che faticano a vedere i difetti degli altri o la pericolosità di certe situazioni e di certe relazioni. Questo può derivare da un carattere particolarmente malleabile, poco incline al confronto, debole di fronte alle scelte; un carattere che ha grandi insicurezze e che ha la necessità costante di creare consenso unanime intorno a sé.

Altre volte, invece, “facciamo gli struzzi” perché c’è un fermo rifiuto di tutto ciò che è legato al senso di responsabilità personale e sociale, una sorta di scantonamento da ogni impegno e implicazione che può derivare. Il risultato è un continuo rimpallo di responsabilità, di azioni, di decisioni.

In entrambi i casi è certo che il comportamento dello struzzo non aiuta anche se può sembrare la soluzione migliore di fronte ad un clima d’ incertezza e instabilità. Purtroppo, e me ne rendo conto ogni giorno, questo tipo di atteggiamento sta diventando sempre più frequente in persone che hanno un ruolo di tipo decisionale, spesso anche importante.

Quel che è peggio è che pensano sia l’atteggiamento migliore e che il tempo darà loro ragione. Purtroppo sbagliano.

D’altra parte a molti è nota la filosofia orientale del “non agire”, ma questo è legato soprattutto allo studio strategico dello sviluppo dell’azione, al frenare l’impulsività, al condividere con altri le modalità per affrontare la situazione, al riflettere su pareri discordanti per raggiungere poi una decisione che possa essere la più obiettiva ed efficace possibile.

Aspettare l’evoluzione di una situazione spesso può portare alla definizione del problema; evitare di vederla e quindi di considerarla è ben diverso: significa non volerla risolvere.

Nel capitolo 3 della Regola benedettina i rimandi al confronto chiaro, aperto e diretto sono moltissimi e, in un clima pur di democrazia e di scambio vivo di opinioni, la scelta decisionale è l’obiettivo finale per il benessere di tutti.

Nei testi degli antichi samurai lo stato di “zanshin” insegna come mantenere uno spirito sempre all’erta (“ZAN”= mantenere, “SHIN”= spirito, letteralmente “mantenere lo spirito allerta”), anche in uno stato di apparente immobilità che però è pronto per un’azione decisionale forte che spesso portava alla morte di uno dei due contendenti.

Cosa accade nella mente di chi “fa lo struzzo”? Cosa spinge le persone a comportarsi in questo modo? Quali sono le conseguenze di questo modo di agire?

Il primo pensiero è che i problemi vadano evitati. In questa logica il nostro “struzzo” cerca consensi tra chi lo circonda. La prima fase prevede un attento vaglio di chi lo potrebbe sostenere e come. La modalità è spesso quella di un vittimistico compiacimento nel quale si cerca di “smorzare gli animi” o sminuire la grandezza o gravità del problema. Atteggiamento che potrebbe rivelarsi vincente soprattutto se aprisse a un confronto che però, nel nostro caso, spesso è assente o, addirittura, come vedremo evitato opportunamente.

In questa fase si cerca di colpevolizzare le situazioni creando un senso di fatalità: è come se i problemi crollassero addosso al “povero struzzo”e non fossero una logica conseguenza di comportamenti poco illuminati.

Il nostro “struzzo” è al centro di questo vortice e anziché promuovere e sostenere azioni proattive evita di parlarne, non vuole sentire le ragioni del malessere diffuso o, se investito di autorità, sospende ogni giudizio e defenestra la persona che solleva il problema.

Nella sua logica pensa che questo sia il comportamento più appropriato, ma la rimozione spesso porta alla luce malcontenti più profondi che sono stati precedentemente rimandati e che alla fine fomentano ulteriormente le situazioni. Nel gestire il consenso e nel non agire per paura di perderlo o non ottenerlo lo “struzzo” perde di credibilità. Di solito reagisce in modo energico, ma autoritario, allontanandosi così dalla persuasione propositiva tipica dei leader.

A poco serve la determinazione in questo contesto, ormai il danno è tale che la impopolarità raggiunta diventa evidente e sfocia in disistima, abbandono totale del campo o della persona,  comportamenti di repulsione aperti e ulteriori conflitti molto difficili da superare.

La fase successiva lo vede impegnato nel tentare di scansare l’ammutinamento in corso.

Qui il nostro “struzzo” adotta una nuova strategia dimostrandosi apparentemente aperto al dialogo, e incolpando agli altri interlocutori di non voler affrontare i dissidi e le incomprensioni.

Di solito è pura apparenza; basta esaminare come gli atteggiamenti corporei siano tutti ad indicare una lontananza totale dall’ascolto attivo e proattivo e dimostrino invece passività mista a vittimismo e mancanza assoluta dell’accoglimento delle proprie responsabilità.

La colpa è dunque sempre dell’altro che non vuole capire, che non si dimostra aperto, che ha pregiudizio: peccato che il nostro “struzzo” adduca ad altri colpe che sono principalmente sue e in una sorta di “reflecting” rigiri abilmente il problema su chi gli sta di fronte.

L’ultima fase è la più terribile: la resa dei conti.

In qualsiasi struttura, sia essa semplice o complessa, dobbiamo sempre da rispondere delle nostre azioni. L’evitare i problemi porta, come già dicevo, alla diffusione del malcontento e di una continua “mormorazione” che diventa devastante.

Il vero intento dello “struzzo” è tenere tutto sotto controllo: azione tipica di chi è altamente insicuro e non vuole lasciare spazi di libertà personale a nessuno.

Tutti ben sappiamo che è impossibile realizzare un tale piano se non attraverso fiducia, responsabilità personali molto alte, senso della condivisione e spirito di iniziativa collaborativo e aperto, qualità delle quali lo “struzzo” difetta ampiamente. Il suo pensiero che affonda le radici nella logica comune è che è più facile “spegnere” gli incendi dolosi sul nascere anziché affrontare le motivazioni del “piromane”.

Come evitare l’atteggiamento dello struzzo e, soprattutto quali strategie adottare?

  • Imparare ad accettare le sfide anche se difficili come delle opportunità di crescita
  • Condividere i successi ed anche gli errori con semplicità e spirito di condivisione
  • Evitare di accentrare o di delegare troppo e solo ad alcuni
  • Ascoltare in modo attivo, senza pregiudizi o timori
  • Vivere le proprie responsabilità come una prospettiva di crescita comune e non come un peso
  • Non avere timore delle differenze di opinioni, vederle come momenti per imparare
  • Continuare a cercare il consenso per la crescita comune e non per il successo personale (che ne è invece una logica conseguenza)
  • Chiedere aiuto apertamente e non temere le critiche: meglio sembrare indecisi nel chiedere che dimostrare di esserlo nel non fare niente
  • Ricordarsi sempre che ognuno di noi è chiamato a compiere “miracoli” attraverso le nostre piccole azioni: non agire o evitare di farlo è un torto a se stessi.

Il counseling può aiutare in questo:

  • Aiutando a riconoscere il proprio ruolo
  • Aiutando a imparare l’accettazione dei pareri contrastanti come opportunità di crescita personale e professionale
  • Aiutando a incrementare i punti di forza attraverso il lavoro pratico su quelli di debolezza
  • Aiutando a sostenere processi proattivi e uno stile di leadership efficace
  • Aiutando a una crescita continua nella quale vedersi come parte del processo e non come vittima

Paolo G. Bianchi

Bibliografia

  1. Hans Jonas: “Il principio responsabilità” , 2009 Einaudi
  2. Lise Bourbeau: “Responsabilità, Impegno e Sensi di Colpa”, 2002, Amrita Ed.
  3. Gabriele Nissim: “La memoria del bene e l’educazione alla responsabilità personale”, 2013, La compagnia della stampa
  4. Hanna Arendt: “Responsabilità e giudizio”, 2010, Einaudi
  5. Barbara Bertani, Mara Manetti: “Psicologia dei gruppi. Teoria, contesti e metodologie d’intervento” 2014, Franco Angeli
  6. Franco di Maria: “Elementi di psicologia dei gruppi”, 2004, Mondadori
  7. Simone Borile: “Nei labirinti dell’aggressività. Verso una nuova antropologia”, 2013, Viator

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