Mi credereste se vi dicessi che mi sono messa a piangere quando sono stata dimessa dal reparto di terapia intensiva perché tutta l’equipe dei curanti mi sarebbe mancata tantissimo?
Trovarsi in terapia intensiva non è mai un buon segnale, io mi trovavo lì a causa di un gravissimo incidente stradale – contusione del polmone, della milza, del rene e numerose fratture del bacino, dell’occhio e delle costole – insomma ero lì lì per salutare definitivamente la mia famiglia, i miei amici e tutti i sogni e progetti di una 26enne, eppure dopo due settimane di interventi, macchinari con il loro continuo “bip bip”, camici bianchi che entravano e uscivano dalla stanza e numerosi esercizi di ripristino della respirazione in cui mi sembrava ogni volta di partecipare alla nascita di Venere del Botticelli, una volta che mi hanno annunciato che ero fuori pericolo e che mi avrebbero trasferita in un altro reparto, mi sono messa a piangere.
Certo c’era l’enorme gioia di “avercela fatta”, ma principalmente ricordo che dentro di me sentivo il timore di non ritrovare persone curanti così accorte, gentili, premurose. Amorevoli.
Lisa, ad esempio, un’infermiera che avrà avuto più o meno la mia età, ogni volta che entrava nella stanza era estremamente dolce, mi chiedeva sempre se andasse tutto bene e se avevo bisogno di qualcosa; o Giorgia, la dottoressa di reparto, che lasciava entrare mia mamma anche se fuori orario visite (e credetemi che fa tanto avere qualcuno che conosci a fianco e fa tanto anche dal punto di vista del familiare!) e che faceva spesso battute per sollevarmi l’umore; o come dimenticare Andrea, un operatore socio sanitario, che mi lavava e che non mi faceva mai sentire in imbarazzo, ma anzi smorzava la tensione con umorismo e pacatezza.
Sì, perché in tutto ciò queste persone non le incontravo in posizione eretta, vestita e ben pettinata, bensì completamente sdraiata, nuda e sfatta.
E impaurita, scossa, sofferente.
Una volta uscita dalla cosiddetta prognosi riservata, mi sono ritrovata nel reparto di chirurgia dove sarei stata qualche giorno, una specie di reparto di attesa, prima di essere trasferita in maxillo – facciale per essere operata all’occhio. Già la persona che mi portò con il letto in reparto fece crescere in me quel timore di cui parlai sopra: era molto frettoloso, non mi salutò nemmeno e chiese, in modo irritato, a mia mamma se aveva i documenti rilasciati dalla terapia intensiva.
Qualcosa stava cambiando, ed io iniziavo a sentire il disagio.

Infermieri che entravano in stanza e mi somministravano i farmaci senza alcun contatto oculare, medici che guardavano la cartella clinica e semplicemente mi dicevano che ne avrei avuto per lungo tempo e nel momento in cui cercavo di fare qualche domanda in più (posso fare qualche esercizio fisico a letto? tornerò a camminare come prima? posso girarmi sui fianchi per dormire?) mi guardavano irritati, come se chiedere non fosse lecito, oppure quell’infermiera che, nel momento in cui suonai il campanello a causa dei dolori lancinanti al bacino, entrò nella stanza, mi guardò fissa negli occhi e mi chiese “che cosa vuoi adesso?”
Ora, immagino che anche voi che state leggendo sentiate la differenza tra la prima descrizione e la seconda, pur non avendo vissuto voi in prima persona la mia condizione.
In cinque mesi di degenza ho avuto numerose e disparate esperienze relazionali con i curanti, ma volendo generalizzare, mi sono resa conto di come l’aspetto relazionale sia poco “curato”, e dal mio punto di vista è paradossale: proprio nell’ambiente della cura non viene preso in considerazione l’elemento che è alla base di ogni processo terapeutico, lo stesso neuro fisiologo italiano Fabrizio Benedetti – conosciuto a livello mondiale per i suoi studi sull’effetto placebo – afferma che quando il curante si pone in relazione con la persona malata ci sono dei benefici nella terapia, nel benessere generale del paziente, e anche nello stesso curante; del resto, come diceva il filosofo Martin Buber: “L’uomo è un essere che può costruire la propria identità solo attraverso il contatto con ciò che ha la forma di un tu”. Siamo esseri relazionali e a maggior ragione è necessario ricordarsene nelle situazioni difficili come può essere una malattia.
Vi è mai capitato di incontrare un medico che anche solo parlando vi ha fatto sentire meglio? O completamente peggio?
Nel lungo periodo di blocco del mio corpo, la mia mente non si è mai fermata ed ho iniziato ad osservare le dinamiche relazionali e comunicative con le numerose persone curanti, ne prendevo nota, ponevo – quando possibile – qualche domanda a medici, infermieri, oss (operatori socio sanitari) per comprendere meglio la loro professione e formazione scoprendo ad esempio – e di questo rimasi sconvolta – che in tutti gli anni di studio non ci sono corsi sistematici dedicati alla relazione con la persona malata.
Com’è possibile?
Chiedevo loro se si confrontavano mai reciprocamente sul come si sentivano ad interagire con il dolore e le sofferenze tutti i giorni, perché, parliamoci chiaro, la professione del curante ha a che fare con patimenti, paure, deformazioni, disabilità, morte, vulnerabilità. Ogni singolo giorno.
Eppure è un taboo di cui non se ne parla, i curanti si confrontano sugli aspetti tecnici di ogni paziente, ma non sul come si sentono loro stessi; sarà un caso se c’è un’altissima percentuale di burn out nelle professioni sanitarie?
Una volta guarita, nella mia mente ormai aveva preso forma un progetto che volevo sviluppare partendo proprio dalla mia esperienza: indagare la relazione tra i curanti e i malati.
Davide, il mio compagno e produttore di video, mi suggerì di trasformare il mio vissuto in un vero e proprio documentario; nel 2017 è iniziato così il nostro viaggio di ricerca di figure che ruotassero attorno a questa complessa tematica e che potessero fornire il proprio pensiero: il neuro fisiologo di cui sopra, un medico e antropologa, una formatrice di comunicazione in ambito medico, un medico sopravvissuto ad un melanoma, un neuro riabilitatore, una persona affetta da una malattia cronico degenerativa, un padre di una bimba con una malattia rara…
Tre anni di lunghe ed intense conversazioni che ci hanno portato a far nascere “Quel qualcosa in più”, un docu-film della durata di un’ora che, pur essendo consapevoli dell’impossibilità di rendere esaustiva la tematica in così poco tempo, cerca di mettere in luce le numerose sfumature presenti nel rapporto tra i camici e i pigiami mirando a creare un ponte comunicativo tra questi due.
Parallelamente al documentario ho creato un blog dove pubblico articoli ed ho intenzione di ampliarlo con video interviste per rendere più facilmente fruibile l’argomento.
In questo periodo particolare che stiamo vivendo sta emergendo l’importanza del lavoro di tutti i curanti anche dal punto di vista umano e credo che sia importante acquisire maggiore consapevolezza del fatto che dietro ogni camice c’è una persona e che dietro ogni pigiama ce n’è un’altra.
E che l’incontro tra loro è di per se stesso terapeutico.
Potete trovare il documentario nel sito web dedicato: https://www.quelqualcosainpiù.com
Se vi va di dare un’occhiata al blog: https://www.cominciamodazeus.com
Nicole Smith *
(*) Non sono una psicologa. Non sono una professionista sanitaria. Sono una persona che ha fatto della sua esperienza traumatica un progetto per aiutare chi, ogni giorno, affronta incontri difficili, incertezze, paure, disagio esistenziale. Sono laureata in Comunicazione. Un master in Consulenza Filosofica e Antropologia Esistenziale. Sto terminando un corso in Comunicazione medico – paziente erogato dalla Drexel University di Philadelphia. Frequento da tre anni un corso di teatro che mi permette di entrare in contatto con me stessa, in modo profondo…

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