In ingegneria la “resilienza” è la capacità di un materiale di resistere a forze esterne senza spezzarsi, in ecologia è permettere ad un ecosistema di ristrutturarsi dopo una catastrofe, in psicologia, la capacità di affrontare le difficoltà che si incontrano nella vita. Un unico termine, che seppur utilizzato in contesti differenti, esprime lo stesso significato: persistere e resistere in modo flessibile ai vari stati fisici, chimici o emozionali.
La prima volta che ho sentito parlare di “resilienza” è stato grazie ad un ingegnere: mi spiegava alcuni metodi per trattare l’acciaio. Le sue parole mi hanno incuriosito molto, tanto da spingermi ad approfondire la ricerca anche in altri ambiti, in discipline diverse. Ad esempio la resilienza è fondamentale anche per gli antichi Samurai medievali: per loro la “resilienza” era rappresentata dal bambù la cui flessibilità gli permette di piegarsi, ma soprattutto di resistere e non spezzarsi.
Questa del bambù è un’immagine molto significativa: ma crisi e problemi possono sempre essere affrontati con resilienza? Come si diventa “resilienti” e fino a che punto si può rispondere in modo positivo? Ci si può piegare di fronte ai problemi senza spezzarsi proprio come un bambù?
Susanna Kobasa, psicologa dell’Università di Chicago, in diversi articoli identifica tre fattori di personalità che sono riconducibili ad un alto grado di resilienza:
• “impegno: ovvero il grado di coinvolgimento nelle attività, tipico delle persone non passive, né ansiose, in grado di valutare realisticamente le difficoltà;
• controllo: convinzione di poter dominare gli eventi, concetto simile al Locus of control. Chi ha un alto grado di controllo è pronto a modificare se stesso e le proprie azioni per una migliore strategia;
• gusto per le sfide: accettazione dei cambiamenti come fattori positivi. Le difficoltà non sono evitate o considerate pericolose, ma piuttosto vengono vissute come occasioni di crescita.”
La storia ci mostra numerosi esempi di personaggi che non si sono dati per vinti facilmente. Sui campi di battaglia o nelle fabbriche o nei templi dell’economia molti sono caduti e si sono risollevati spesso più forti di prima. Sono persone che in ogni crisi, anche la più profonda, hanno saputo trovare una via d’uscita, un’opportunità da sfruttare fino in fondo per ricominciare e vincere. Nel famoso discorso di Stanford, tanto per citare un noto esempio, Steve Jobs parlava del suo licenziamento e della sua dipartita dalla Apple come il momento più problematico, ma anche più importante di tutta la sua carriera: eppure era già Steve Jobs!
A quanto pare non conta cadere o perdere, ma trovare la forza per rialzarsi. Credo questo sia il senso di “impegno” citato da Kobasa: avere una visione lucida della realtà, con tutti i pro e i contro, uno spirito di distacco tale da riuscire a effettuare scelte anche dolorose sapendo però intravedere nuovi obiettivi e soprattutto una meta.
A volte, nelle sessioni di counseling, mi accorgo di come le persone si rivolgano ad un professionista perché non sanno realmente cosa vogliono: da una parte sono ancorate alle loro realtà e dall’altra sentono che queste ancore le stanno trascinano a fondo. Sentono il bisogno nuove visioni, nuovi orizzonti, ma soprattutto il vincere quella paura che impedisce di provare, sperimentare, realizzare qualcosa di nuovo: quindi cercano la costruzione di un piano di lavoro ben preciso che permetta loro di migliorare, svincolandosi dagli ostacoli e ottenere più chiarezza per il presente in previsione di un futuro più gratificante.
La definizione di controllo che ho appena citato ben si adatta al prosieguo di questo processo di ricerca: gli eventi possono essere dominati facendo in modo che non ci dominino. Ho incontrato imprenditori e dirigenti ossessionati dal controllo: persone paurose di tutto e tutti, ma investite di un ruolo di responsabilità e inseriti in ambiti in cui sono costrette a riferire a loro volta ad altri dei propri risultati. Tra l’incudine il martello queste persone si sentono schiacciate e senza via di uscita. A volte basta che si rendano conto che le pressioni che vivono ogni giorno siano solo la voglia di apparire o di superare standard non richiesti; mentre altre volte è sufficiente che riconoscano i loro limiti o le loro incapacità per uscire da questa spirale soffocante.
Il controllo permette di vedere le cose come stanno, correggere la rotta e riorientare le vele con il vento a favore. Nelle arti marziali il termine giapponese Zanshin ?? dà una bella idea di questo stato. Il termine è composto da due ideogrammi: il primo Zan significa “Mantenere”, mentre il secondo “Shin” significa “Spirito”, letteralmente potremmo tradurre il tutto come “mantenere lo spirito di allerta”. Questa tipologia di controllo non esprime una visione ossessiva di perfezionismo o di oppressione verso se stessi o gli altri, ma una vigilante allerta verso i fatti della vita con quel dovuto distacco che permette di effettuare scelte in relazione alle necessità del momento, ma tenendo presente anche aspetti etici, filosofici, ambientali, sociali ecc.
In questa logica la strategia vincente non è scegliere gli aspetti più convenienti o più risolutivi al problema, ma saper guardare più lontano facendo ricadere i vantaggi, per esempio, anche su altre persone o situazioni. Per usare sempre un insegnamento samurai si potrebbe dire che in uno scontro non vince chi è più preparato tecnicamente, ma chi sa aspirare a qualcosa di più grande, più ampio per sé e per gli altri.
Ho per voi un altro esempio, tratto dalla nostra tradizione, di come possa essere interpretato positivamente il senso di controllo. Durante una visita al monastero benedettino di Monte Uliveto Maggiore in Toscana la guida, descrivendo il coro, il luogo dove i monaci pregano, ci ha fatto notare che sul leggio principale era intarsiato un gatto. Perché proprio questo animale? Perché il gatto è sempre vigile nelle situazioni, pronto a scattare quando serve, ma altrettanto amante del riposo, tanto attivo nelle ore notturne quanto in quelle diurne secondo le necessità. Il gatto è sempre perfettamente inserito nello spazio circostante, nella natura, nelle situazioni, ma allo stesso tempo è distaccato, capace di autonomia e soprattutto completamente libero da vincoli e limitazioni. Quello che dovremmo auspicare per noi stessi è essere “vigili” come un gatto.
Credo che questa sia una buona descrizione del controllo: una sana e realistica capacità di intendere e volere basata su un costante e paziente lavoro su se stessi alla ricerca non del perfezionismo o della perfezione, ma di una serena accettazione rivolta al miglioramento continuo. Da notare che questa ricerca ha senso solo se è condivisa perchè se fosse finalizzata a sé stessa può produrre solo insoddisfazione o sensi di colpa nel momento in cui gli obiettivi non possano, per varie ragioni, essere raggiunti.
Il gusto per le sfide a questo punto è un fattore indispensabile. Ho conosciuto persone che hanno lottato tutta la vita con se stessi e con le situazioni perché avrebbero voluto vivere totalmente isolate da tutto e da tutti: una misantropia strana la loro, fatta di un desiderio impossibile e quindi di una rassegnazione totale alle cose di tutti i giorni. Le sfide sono necessarie per crescere: il bambino sfida la gravità ogni volta che tenta di alzarsi e rialzarsi, quando prova a correre con la prima bicicletta. Le sfide sono tante e progressive: dalla parola all’interpretazione della stessa nel neonato, all’imparare nuove e più complessi idiomi e scritture (immaginate lingue come il cinese, l’arabo, l’ebraico…). Quando si perde il gusto per le sfide si perde la voglia di rialzarsi. Questo è un passaggio delicato nel quale la resilienza ha bisogno di strumenti pratici.
Dietro ad ogni sfida ci sono persone differenti con capacità, più o meno innate che devono affrontare i problemi: molti si fermano al nastro di partenza limitati da tante contraddizioni interne, da scarsi stimoli esterni o semplicemente perché la paura li pervade. È anche vero che non tutti siamo leoni pronti ad aggredire l’esistenza, ma in una sana via di mezzo si pongono le condizioni per creare in noi una buona dose di resilienza.
Come fare?
• Essere sempre realistici: evitare di ingigantire i problemi o di sottovalutarli. L’accettazione di quello che si deve affrontare a volte suscita nelle persone capacità nascoste a trovare soluzioni e a metterle in atto.
• Evitare lo sconforto: attorniarsi solo di persone positive capaci di stimolare azioni propositive e non farsi condizionare da situazioni limitanti o giudizi infondati. Il fatto che altri non vedano la possibilità di un’impresa non significa che non si possa realizzarla!
• Avere un piano: fissare obiettivi progressivi, ma come un gatto saper cogliere segnali, varianti, azioni alternative.
• Risparmiare energie: andare contro corrente è molto più faticoso che seguirla. Ogni azione che compiamo ha una serie infinita di reazioni che influiscono non solo sul nostro lavoro o sul nostro modo di essere, ma anche su quello di chi ci circonda. Questa consapevolezza non deve essere un impedimento al progresso e alla creatività, ma deve aiutarci a fare le cose non solo per noi stessi, ma in un piano più ampio.
• Consolidare e crescere: una volta raggiunto un obiettivo non aspettare troppo a costruirne un altro: la stagnazione nasce quando ci si sofferma troppo o, come direbbero i monaci benedettini, quando ci si adagia lasciando che gli eventi ci sovrastino. Ricordare sempre che le azioni dipendono da noi e non viceversa!
• Crearsi una disciplina: tutto questo si può attuare solo se si è convinti del nostro obiettivo e si cerca di raggiungerlo con dedizione e passione. Non si possono ottenere risultati in nessun campo senza continuare a seminare con la ferma volontà di voler raccogliere. Non c’è tempo per restare fermi: pensare, condividere e agire con convinzione.
• Non lasciare che le sconfitte sovrastino la possibilità di vincere: quando si cade dalla bicicletta si torna in sella anche con le ginocchia sbucciate. Perché? Perchè andare in bicicletta è comunque bello, permette autonomia, libertà di azione, possibilità di condividere. Se quando si cade non si vuole vedere il bello che ci aspetta al traguardo non ci arriveremo mai.
• Farsi aiutare: non tutti abbiamo la forza per tracciare e seguire una strada da soli, dividerla con un buon partner è sempre un risultato garantito per il successo sia esso un professionista, un vero amico o il compagno o la compagna della propria vita. Giocare di squadra, anche se ci sono delle regole da rispettare, è sempre più divertente e meno rischioso che giocare da soli!
Tornando al Giappone e alla visione del bambù, è importante ricordare che i samurai medievali dedicavano alla disciplina tutta la loro esistenza sentendosi però sempre pienamente padroni di tutto il loro modus operandi: essere disciplinati e metodici li aiutava a non porsi troppi problemi di fronte alle azioni da compiere soprattutto nell’indecisione e quando i risultati tardavano ad arrivare. Scegliere un modo di vita in cui la disciplina della resilienza abbia una parte rilevante non significa diventarne schiavo, ma coglierne gli aspetti che permettono di aprirsi agli altri condividendone capacità e qualità prima che debolezze e manchevolezze.
I passaggi a questo punto diventano:
• Riconoscere una serie di valori essenziali sui quali costruire le proprie dinamiche.
• Porre attenzione agli stati d’animo e alla loro gestione nei momenti di crisi profonda.
• Governare le emozioni ed evitare che, nei momenti di crisi, abbiano il sopravvento creando stati di negatività e impedendo di mantenere un sano realismo.
• Comprendere la propria reazione allo stress per trasformarla sempre in energia positiva.
Per questo ritengo la resilienza anche un aspetto socialmente utile: vivere profondamente i valori prescelti crea la necessità di condividerli creando uno spirito di coesione e di crescita comune soprattutto quando si esce dall’egocentrismo e lo si vive con armonia. Il cambiamento è un progresso comune che coinvolge dinamiche ed energie continue in uno scambio di dare e avere. Essere resilienti in tempi di crisi significa accogliere, condividere, ma soprattutto armonizzare processi insieme ad altri in modo da parcellizzarne difficoltà e problemi.
“Se oggi semini il seme d’un bambù, a lungo non vedrai nient’altro che un piccolo germoglio. Il tempo passa e probabilmente penserai: ‘Forse mi hanno dato un seme non buono’. Se invece sei a conoscenza di quello che sta succedendo, sai che devi aver pazienza. Per 4 anni sembra che niente si muova, ma durante il quinto anno ad un tratto la pianta inizia a crescere, e certi esemplari raggiungono un’altezza d’oltre 24 metri. Quello che succede durante i primi 4 anni non è visibile ai nostri occhi, ma sotto la superficie si stanno sviluppando grandi radici che servono come base per la pianta. L’importante è continuare ad alimentare quel seme per vederlo crescere e quando diventerà pianta nulla potrà spezzarlo e crescerà all’infinito alimentando se stesso insieme alle piante vicine” (insegnamento Samurai).
Paolo G. Bianchi
Antropologo, Counselor
Bibliografia:
- Anna Putton, Michela Fortugno: “Affrontare la vita. Che cos’è la resilienza e come svilupparla”, Ed. Carocci, 2011
- Pietro Trabucchi: “Resisto dunque sono”, Ed. Corbaccio, 2007 (7° riedizione)
- Franca Sartori: “La resilienza”, Ed. Centro Studi EAN, 2010
- Domenico Di Mauro, “La resilienza”, Ed. Xenia, 2012
- Al Siebert: “Il vantaggio della Resilienza”, Ed. Amrita, 2009
- Hagakure: “Il codice segreto dei samurai”, Ed. Einaudi, 2004
è stato un piacere leggere, ed anche molto stimolante di riflessioni positive. Grazie.