Se la prevalenza di una malattia è di 1 su 1000 e il test per diagnosticarla produce il 5% di falsi positivi, che probabilità ha una persona risultata positiva al test di avere davvero la malattia?
Un recente studio pubblicato sulla rivista della American Medical Association (JAMA) ha rivelato che almeno la metà dei professionisti in camice bianco a cui era stato posto il quesito aveva risposto: “chi risulta positivo al test, ha il 95% di probabilità di avere la malattia”.
Secondo Daniel Morgan, docente di epidemiologia alla Scuola di Medicina dell’Università del Maryland, non è scontato infatti che i medici sappiano rispondere correttamente. Anzi, il più delle volte – come in questo caso – quando si tratta di statistica sembrano incappare in errori grossolani, con conseguenze rischiose per i pazienti e costose per il sistema sanitario.
In realtà, spiega Morgan sul Washington Post, la probabilità è soltanto del 2%, perché, immaginando di sottoporre a screening 1000 persone, possiamo presumere che una sarà malata tra circa 50 di loro positive al test: ma uno su 50 equivale a dire due su 100, non 95; quindi la probabilità è del due per cento.
Ritenere che una persona abbia il 95% di probabilità di essere malato invece del 2% cambia completamente il quadro clinico e le ipotesi di intervento.
Questa situazione ha portato Svizzera e Francia a riconsiderare, ad esempio, i programmi di screening per il carcinoma mammario, preferendo programmare gli interventi solo dal momento della diagnosi, al fine di evitare alle persone sane trattamenti invasivi inutili e dannosi.
In un “paper” uscito lo scorso anno sul prestigiosissimo British Medical Journal (BMJ), Morgan e colleghi avevano scoperto, su un campione di 177 pazienti cardiaci ospedalizzati , che il 90% dei test a loro prescritti dagli specialisti non era necessario e almeno un terzo superfluo.
“Quando i pazienti vengono sottoposti a test non necessari – conclude il professore – c’è una buona probabilità di credere che i medici utilizzeranno quei risultati per programmare i trattamenti, con conseguenze sanitarie ed economiche non difficili da immaginare”.
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