Tra geni e ambiente: il neuroepigenoma

Tra geni e ambiente: il neuroepigenoma.

“Todo hombre puede ser, si se lo propone, escultor de su propio cerebro” (Santiago Ramon y Cajal)… L’irriducibile dualismo esistente tra geni e ambiente affonda le sue radici nella storia della scienza e della filosofia. L’entusiasmo per il ruolo giocato dai geni nella determinazione delle più svariate malattie ha probabilmente raggiunto il proprio picco con il recente completamento dell’opera di sequenziamento dell’intero genoma umano.

Nonostante questo sforzo titanico, il risultato è stato in un certo senso deludente rispetto alle aspettative, in quanto nell’immediato si è riusciti a evidenziare i meccanismi causali solo per alcune malattie a trasmissione chiaramente “mendeliana”, sostenute, nella maggior parte dei casi, da specifiche mutazioni con alterazione dell’informazione veicolata dal DNA.

Ma cosa succede se, invece di prendere in considerazione l’informazione genetica codificante per una determinata proteina in senso stretto, si considera la regolazione dell’espressione di tale gene?

Infatti, è ragionevole pensare che il ruolo fisiologico di un gene sia determinato non solo dalle caratteristiche “fisiche” della corrispondente proteina, ma anche da molteplici altri fattori: ad esempio, quando durante l’ontogenesi, in quali tessuti, e a che livelli, tale proteina viene prodotta.

L’espressione alterata in senso temporale, spaziale o quantitativo (in eccesso / in difetto), di una proteina per il resto normale potrebbe essere responsabile di patologie tanto quanto un suo vero e proprio malfunzionamento.

Il campo dell’epigenetica tratta per l’appunto del modo in cui viene regolata l’espressione genica, in particolare attraverso cambiamenti di conformazione della cromatina. La metilazione del DNA e/o le modificazioni delle code N-terminali degli istoni (le proteine che legano il DNA e ne permettono il corretto avvolgimento) possono portare a riarrangiamenti nella struttura tridimensionale del nucleo soma (l’unità elementare di compattamento del DNA), alterando quindi l’accessibilità dei fattori di trascrizione all’informazione rappresentata dal codice genetico.

Dunque, l’epigenotipo, ovvero il profilo di metilazione del DNA e di metilazione / acetilazione istonica, rappresenterebbe un livello di informazione che si superimpone a quello del codice delle triplette e potrebbe giocare un ruolo chiave sia in fisiologia che in patologia.

E d’altro canto, tale profilo epigenetico è a sua volta strettamente regolato dall’interazione con l’ambiente: si è dimostrato, infatti, che l’epigenotipo cambia in maniera estremamente specifica a livello di determinate regioni cromosomiche a seguito dell’esposizione a ormoni, farmaci o addirittura a composti alimentari ricchi in gruppi metilici.

Dalla letteratura appare anche chiaro che le modificazioni epigenetiche si pongono all’interfaccia tra geni e ambiente, potenzialmente consentendo le interazioni tra questi due sistemi. Si veda, quale esempio, il lavoro di Weaver e colleghi del 2004 (Nat Neurosci. 2004;7:847-54) [1], nel quale le differenze nelle cure materne nel ratto determinavano l’emergenza di differenti profili di metilazione a livello del promotore del recettore per i glucorticoidi in sede ippocampale, recettori implicati, a loro volta, nel modo di rispondere agli stimoli ambientali in età adulta.

Tali dati hanno avuto un profondo impatto sul modo di pensare a questa classica dicotomia, rendendola più sfumata e con confini sempre più incerti (si veda della stessa autrice l’articolo: “Nature versus nurture: let’s call the whole thing off” del 2007) [2]. L’incessante regolazione bidirezionale a livello di questa “interfaccia biologica”, tracciabile con opportune metodiche, potrebbe essere soggetta alle stesse leggi che sono operative in situazioni gerarchicamente più complesse, permettendo di formulare l’ipotesi di un vero e proprio “darwinismo epigenetico”.

Tale fenomeno sarebbe attivo in particolare a livello neuronale, dove sono operative continue sollecitazioni, responsabili della plasticità dei circuiti, teoricamente regolate nel cosiddetto darwinismo neuronale di Edelmann (premio Nobel per la medicina nel 1972).

Se tale ipotesi risultasse confermata si potrebbe allora anche ipotizzare che le modificazioni epigenetiche giochino un ruolo nel modulare la struttura dell’interfaccia di un altro classico dualismo, quello tra mente e cervello. Alcuni esempi in tal senso potrebbero essere quelli dell’ademetionina (solfo-adenosil-L-metionina) 1,4-butandisolfonato che svolgerebbe il suo effetto antidepressivo attraverso la donazione di un gruppo metilico o l’evidenza che la somministrazione di metionina ad alte dosi in soggetti schizofrenici ne può peggiorare la sintomatologia.

Le modificazioni epigenetiche hanno ricevuto di recente una particolare attenzione soprattutto in ambito oncologico, ma vi sono sempre più evidenze del fatto che possa trattarsi di un fenomeno significativo anche in ambito neuropsichiatrico. Per esempio, una delle prime malattie neurologiche in cui è stata osservata una modificazione dell’epigenotipo è la sindrome di Rett, una forma frequente di ritardo mentale infantile su base ereditaria, legata a una mutazione a carico di MeCP2, una proteina in grado di legare il DNA metilato e di reprimere così la trascrizione di altri geni.

Tale mutazione di MeCP2 determinerebbe una disfunzione dell’attività sinaptica neuronale associata all’emergenza di uno spettro fenotipico molto ampio, almeno in parte dipendente dal processo di inattivazione del cromosoma X, dove mappa il corrispondente locus genico.

Un’altra ipotesi testata recentemente prevede che le modificazioni epigenetiche possano gicoare un ruolo importante anche nella genesi della psicosi. Erminio Costa (1924-2009), Alessandro Guidotti e colleghi, all’Istituto di Psichiatria dell’Università dell’Illinois a Chicago (UIC), hanno teorizzato, infatti, che un’eccessiva attività dell’enzima DNMT1, una DNA metil-transferasi, possa indurre una riduzione dell’espressione di alcuni geni, come reelina e GAD67, che modulerebbero a loro volta la plasticità ed il trofismo delle spine dendritiche nei neuroni piramidali corticali, determinando quella che si definisce oggigiorno come una sinaptopatia, un disturbo, cioè, da alterata connettività neuronale.

Come in ambito oncologico si sono fatti strada composti farmacologici in grado di inibire enzimi chiave nel mantenimento dell’epigenotipo, così si può pensare che lo stesso avverrà in ambito neuropsichiatrico. In realtà poi i neuropsichiatri potrebbero già interferire, senza saperlo, con il neuroepigenoma poiché il caso vuole che un vecchio farmaco antiepilettico e stabilizzante dell’umore, il valproato, sia anche un inibitore dell’enzima istone deacetilasi, coinvolto direttamente nel mantenimento del profilo epigenetico. La speranza è dunque quella che nuovi dati sui meccanismi di controllo del neuroepigenoma possano in futuro garantirci nuove possibilità di intervenire su questa interfaccia per curare numerose malattie croniche del cervello.

Lucio Tremolizzo, MD
Specialista in Neurologia
Phd in Neuroscienze

Reference:

  1. Weaver IC et al., Epigenetic programming by maternal behavior, Nat Neurosci. 2004 Aug;7(8):847-54.
  2. Weaver IC, Epigenetic programming by maternal behavior and pharmacological intervention. Nature versus nurture: let’s call the whole thing off, Epigenetics. 2007 Jan-Mar;2(1):22-8.

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