Università: torniamo al vecchio ordinamento, please

La riforma-scempio del “tre più due” ha deteriorato il valore del sapere e, conseguentemente, delle lauree. Il sistema accademico italiano post riforma è impregnato di falle e problemi. Tra questi, l’annacquamento dei piani di studio, conseguente all’allungamento in cinque anni di cicli che prima erano di quattro anni, ma fatti bene. Assistiamo allora alla moltiplicazione di esami inutili e allo spezzettamento degli esami di sostanza.

Scellerato il sistema dei crediti universitari: questo “sistema europeo” pretende con arroganza di “misurare la cultura”. Sì, misurare la cultura! È impossibile! La cultura non è quantificabile, né misurabile con un metro come quello dei “crediti”. Un errore sostanziale è alla base di questa riforma. E’ impensabile dire che due persone impieghino lo stesso monte ore per preparare un esame: se si hanno diversi approcci alla materia e diverse inclinazioni sarà sicuramente diversa la quantità di tempo dedicato all’apprendimento.

Questo sistema, inoltre, va a snaturare il valore del voto: a parità di crediti, due voti diversi indicano una preparazione diversa. E generalmente una preparazione diversa indica tempi di studio differenti. Ma questo, secondo il 3+2, non è possibile, perché a parità di crediti corrisponde lo stesso monte ore di studio. È un gatto che si morde la coda.

La tesi di laurea dovrebbe rappresentare il traguardo di studio, il passaggio dalla qualifica di studente a quella di “dottore”. Il 3+2 ci ha tolto anche questo. Oggi esistono due tesi di laurea, quella triennale e quella specialistica. Ogni università regola a suo modo il quantum e il modus di redazione. In alcune università, addirittura, la tesi triennale è stata abolita o è stata abolita la discussione. E questo purtroppo succede anche nelle più rinomate e costose università private…

La riforma ha poi partorito lauree “topolino”: con il 3+2, infatti, ogni università può creare nuovi corsi di laurea purché si attenga alle classi scientifiche di appartenenza. E’ sotto gli occhi di tutti l’offerta nazionale di lauree con nomi assurdi e di improbabile utilità. Stesso discorso vale per i master, ormai meri strumenti di arricchimento di università e aziende a spese di speranzosi studenti. Un master non può creare un posto di lavoro. Questa – a nostro avviso – è demagogia accademica.

Ogni università può disciplinare autonomamente la determinazione del voto di laurea e i criteri per l’attribuzione della lode. Ne consegue che uno stesso voto conseguito in università diverse ha un significato completamente differente. Inoltre assistiamo alla cattiva prassi di alcuni atenei di “siringare” i voti per far apparire più prestigioso l’ateneo, nella speranza di attirare maggiori finanziamenti. Un vero e proprio doping dei voti.

Per non parlare dell’agognato titolo di “dottore”. L’Italia è l’unica nazione che elargisce questo titolo per tre livelli di studio completamente diversi tra loro. Il laureato triennale, infatti, è un dottore, mentre il laureato specialistico è un dottore magistrale e colui che ha conseguito un dottorato di ricerca diventa dottore di ricerca. Tutto questo, evidentemente, rasenta la follia. Una lingua così bella e ricca come l’italiano scopre di non avere termini sufficienti per il sistema universitario. Per quale motivo? Perché abbiamo importato un sistema anglosassone in un contesto completamente differente. Risultato? Un macabro scimmiottamento con devastanti effetti, che stiamo vivendo quotidianamente.

In questo andazzo, è certo che riusciamo anche a produrre laureati analfabeti: in Italia il 21% dei laureati è fermo al livello elementare di comprensione di una pagina scritta e non riesce ad andare oltre. E pensare che le nostre università pretendono di insegnare l’inglese e le altre lingue straniere… Ci sono degli esami di abilitazione alle professioni protette in cui parecchie persone vengono bocciate proprio perché presentano elaborati improponibili sul piano grammaticale. E tutte queste persone sono laureate.

Se prima, dell’università se ne poteva criticare la vetustà, era comunque inopinabile il fatto che fornisse una discreta preparazione. Oggi l’università del 3+2 risulta asservita a logiche di management aziendale, sia all’interno, nella gestione degli atenei, sia all’esterno, cioè come titoli di studio forniti. I percorsi di studio sono stati spogliati della parte culturale e tutto si è ridotto a una mera conoscenza “spendibile”  (solo apparentemente) in ambito lavorativo.

Quindi oltre ad aver ammazzato la cultura (primo colossale fallimento) la riforma scempio del 3+2 ha avuto effetti contrari alle sue stesse intenzioni: abbiamo quintali di laureati con un futuro buio, destinati alla disoccupazione, e spesso le aziende si lamentano per la loro impreparazione (secondo mastodontico fallimento).

Siamo convinti che si debba scindere il mondo accademico da quello professionale: fra i due c’è sicuramente un nesso, ma l’università deve essere la roccaforte della cultura, non delle conoscenze professionali (che in ogni caso non fornisce e non potrà mai fornire, perché queste si possono apprendere solo sul campo).

L’università di oggi in certo modo è complice della disoccupazione. Per favore, torniamo al vecchio ordinamento. Torniamo all’Università seria. Ve lo chiedono, supplici, gli studenti.

Simone Colapietra

Università: torniamo al vecchio ordinamento, please.

Simone Colapietra (nella foto) è nato a San Severo (Foggia) nel 1991. Si sta laureando in Economia e commercio ed è autore del libro “Il fallimento dell’università italiana: dalla riforma-scempio del 3+2 a oggi”, pubblicato nel 2012 da Cerebro Editore – link al volume

Questo articolo inaugura la Sezione di BrainFactor “Università”, dedicata all’analisi critica dello stato dell’accademia italiana, della ricerca e della formazione. Invitiamo studenti e docenti a inviare a redazione@brainfactor.it proposte e contributi di stimolo al dibattito.

 

2 Comments on "Università: torniamo al vecchio ordinamento, please"

  1. Ho frequentato l’università negli anni 80, mio marito nei 70 e i miei figli in questi anni 2000.
    Non posso che condividere in toto il contenuto dell’articolo del giovane coetaneo di uno dei miei figli.
    Peccato che, dell’auspicabile veloce ritorno al “vecchio” ordinamento non potranno beneficiare, scontando oltretutto, questo il il secondo dei miei figli, il mastodontico errore che ha compiuto il Politecnico di Milano i cui corsi magistrali (????????) dal 2014 saranno tenuti in lingua inglese. Sciagurata decisione sulla quale spero si ritorni.
    Mala tempora currunt! E un enorme in bocca al lupo ai giovani.

  2. concordo in pieno e la penso allo steso modo da molto tempo. L’ultima follia l’ho letta ieri: chi non parla l’inglese non potrà accedere a molti corsi di laurea, corsi , non necessariamente scientifici, semplicemente paradossale, che saranno tenuti esclusivamete in lingua inglese! (università Ca’ Foscari) Ergo chi, in questo Stato, comìntribuisce alla sovvenzione dell’università pubblica ma non parla correntemte la lingua inglese non potrà iscriversi o verrà bloccato con gli esami se non dimostrerà di possedere un titolo che accerti un buon livello di conoscenza della lingua; praticamente una follia ed un autentico sopruso,.
    Capisco l’esigenza di interzionalizzare (chiodo fisso dell’ultimo deprecabile ministro Profumo), ma mi sembra una vera stupidaggine, l’ultima pericolosa deriva verso l’esclusione dal sapere di molti che quel titolo non potranno procurarselo. Mi verrebbe da dire: allora i fondi fateveli dare da Cameron!

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