Accidia… Riconosciuta tra i “vizi capitali” più dilaganti, Dante, Petrarca, Jacopone da Todi, i Padri del deserto ne hanno fatto un cavallo di battaglia. Santi e teologi di ogni epoca l’hanno considerata uno dei maggiori nemici da sconfiggere. Oggi invece, parlando con le persone, ci si accorge che molti non sanno nemmeno cosa sia. Che cos’è, dunque, l’accidia? E soprattutto, esiste ancora?
L’etimologia classica fa derivare il termine dal greco ἀ (alfa privativo = senza) + κῆδος (= dolore), quindi assume il significato di senza dolore, nel senso di indolenza. Nel latino tardo si trasformerà nel termine “acedia”. Si manifesta quando siamo apatici verso tutto e tutti, quando ci allontaniamo con il pensiero dai nostri doveri e dalle nostre attività, quando non ci prendiamo la responsabilità delle nostre azioni e lasciamo che noia, tristezza, indifferenza e malinconia prendano il sopravvento nella nostra vita.
Spesso viene confusa con l’ozio; ma se si analizzano bene, l’accidia è molto diversa, soprattutto se paragonata ad un “ozio voluto”, nel quale ritemprare anima e corpo soprattutto dopo lunghe fatiche fisiche e intellettuali. L’accidia non è semplicemente “non fare niente”, come molti pensano; è quel lasciarsi andare e allontanarsi da tutto per entrare in una sorta di torpore costante nel quale non esistono più stimoli e motivi di positività.
Credo che in alcuni momenti della nostra vita, soprattutto nel momento di prendere importanti decisioni ognuno di noi abbia incontrato l’accidia almeno una volta: il modo con cui l’abbiamo affrontata, soli o aiutati da “esperti”, ha fatto la differenza. Quindi, se ci guardiamo attorno e facciamo attenzione, possiamo notare come esistano molte persone tendenti all’accidia, al non andare oltre a una certa misura di responsabilità, al vedere sempre tutto nero e quindi non voler nemmeno provare a trovare soluzioni.
L’accidioso è quindi quella persona che manca di totale perseveranza nelle cose (non per fattore caratteriale), che è sempre svagato e, come diceva Evagrio Pontico, un famoso Padre del Deserto, “vive una costante atonia e debolezza nell’anima” che è da intendere come un abbattimento dell’anima. Quello dell’accidia è uno stato che allontana dal prendere decisioni o dal trovare nuove fonti o stimoli nelle cose che si fanno. Frasi come “tanto so che non servirà a niente” o “tanto le cose non cambiano” sono un riflesso di questo modo di pensare in cui la persona non vuole mettersi in gioco ed evita ogni forma di coinvolgimento in una piramide continua di omissioni.
Molti si rifugiano nel sonno come fuga dalla realtà: abbandonano se stessi in un oblio e un vuoto senza fine. La vita di chi è colpito da accidia è fatta di angoscia, ansia, non ha riferimenti sicuri e mete a cui ambire: è come se questa persona camminasse su una superficie senza consistenza. All’accidia la persona reagisce con un umore instabile, con continui e repentini cambiamenti nelle situazioni e nelle relazioni personali che diventano altamente fragili, senza storia. La sfiducia dell’accidioso nei confronti della vita finisce per diventare sfiducia nelle proprie capacità e conoscenze, per arrivare alla vera e propria depressione.
È come se quella che inizialmente si presenta come un’insofferenza nella vita sia destinata inesorabilmente a diventare uno stato permanente di negatività e pessimismo cosmico che va a danneggiare sia i rapporti interpersonali che quelli lavorativi. In quest’ultimo ambito, per esempio, la “sindrome da burnout” può essere una delle degenerazioni proprie dell’accidia. Le cause di tutto questo possono ritrovarsi in una mancanza di stimoli efficaci a volte difficili da ritrovare fuori dalla cerchia delle solite cosa da fare. In effetti l’accidioso non viene meno alla quotidianità, ma è come la svolge che lo rende diverso dalle altre persone: ogni suo gesto è accompagnato da uno sbadiglio o da una frase fatta di indolenza e di negatività.
La nostra società ci impone velocità di azioni e pensieri e in questo mondo gli accidiosi sono in aumento forse perché non riescono a reggere il ritmo. Infatti le proposte e i segnali che arrivano a ognuno di noi sono molteplici e differenziati e per questo diventano difficili da coglier al volo: mente e corpo, quando non vogliono optare per delle scelte si ribellano e si orientano al non voler più cogliere questi segnali orientando la persona a starsene in disparte e facendola entrare in una sorta di conformismo sociale.
Molti psicologi fanno risalire le cause dell’accidia ad un eccesso di amore per sé e alla smodata passione per il proprio Io: ogni cosa è vista in funzione dei propri sogni e bisogni, non importa la relazione con l’altro e non importano giudizi o aiuti esterni: conta solo la propria opinione, la propria visione della vita e l’instancabile volontà a non voler vedere le cose da altri aspetti. Un’altra serie di ragioni proviene, sempre secondo gli psicologi, dalla mancanza di interessi concreti per cui la quotidianità diventa amorfa e apatica. Anche un eccesso di attività può produrre una serie di impegni, punti di riferimento e obiettivi da raggiungere spesso scollegati tra loro: quando le forze fisiche vengono meno la persona deve fare i conti con la realtà e con se stessa; da cui lo sprigionarsi della negatività e del pessimismo costanti.
Quali soluzioni può proporre il counseling a tutto questo? Come sempre bisogna capire lo stato di progressione del disagio: se questo è avanzato e lo stato di malinconia e disamore è costante, è fondamentale ricorrere ad altri professionisti.
Una vita impostata alla ricerca della propria serenità, di relazioni stabili e costruttive e una visione delle proprie attività in termini positivi aiutano invece a prevenire l’accidia:
- Equilibrio: esercizi di equilibrio fisico legati alla respirazione (in questo le arti marziali aiutano molto) aiutano a ritrovare se stessi. Può essere utile se questi vengono praticati in gruppo, per aumentare la socialità. La concentrazione sulla propria respirazione aiuta ad essere anche maggiormente concentrati sulle cose che si fanno e la pratica fisica crea anche armonia nei gesti.
- Costanza: creare piccoli obiettivi quotidiani, dall’inizio facilmente raggiungibili, e cercare di mantenerli nel breve periodo: questo aiuta a costruire una quotidianità fatta di “cose normali”, fatiche, impegni e la creazione di un sano realismo.
- Ottimismo e fiducia: tornare a credere che esistano dei passaggi obbligati che servono per maturare e crescere e che dietro ogni piccola crisi può nascondersi un cambiamento migliorativo.
- Accettazione di sé e degli altri: noi non siamo il punto di riferimento di tutto il mondo e il mondo non deve ruotare intorno a noi anche se questo non deve esimerci dal migliorarlo attraverso il nostro lavoro e la nostra esistenza, magari con l’aiuto di chi ci sta vicino o lavora a stretto contatto con noi.
- Avere sempre un sogno nel cassetto, sapendo anche che potrebbe non avverarsi: le arti marziali insegnano che a volte il vero risultato non è raggiungere l’obiettivo, ma la strada che si è seguita per raggiungerlo.
In questi termini la relazione di aiuto, sotto la guida di un counselor può essere impostata in una ricerca di nuovi stimoli, di reinnamoramento alle cose della vita attraverso la rete di relazioni e una buona ristrutturazione dei propri impegni professionali. Saranno sempre e comunque le nostre scelte ad aiutarci nella costruzione della qualità della nostra vita.
Seneca diceva: “Non esiste vento favorevole per chi non sa dove andare”; creiamoci una meta e a piccoli passi proviamo con passione a raggiungerla, concedendoci del sano ozio creativo di tanto in tanto, ma sempre con la voglia di arrivarci.
Paolo G. Bianchi
Antropologo, Counselor
Ciao Paolo, dopo il tuo invito, non ho resistito e così ho vinto le resistenze e ho letto il tuo lavoro. Il mio commento da profano non può che essere positivo, visto anche l’impegno direi quasi “pedagogico” in cui ti sei profuso: dei sani consigli sono sempre bene accetti! Bella anche la riflessione sul fenomeno del “burnout”. Consiglierò la lettura agli amici. Con simpatia, Alessio.
Bravo Paolo. Bellissimo e molto interessante.
Salve, sono un indolente. Posso dire che tutto quello che è scritto su questa pagina è vero. Però, vorrei segnalare il fatto che più volte mi sono rivolto a specialisti per via di quella che chiamavo, sin da bambino, mancanza di forza di volontà, ma NESSUNO di questi mi ha mai parlato di indolenza, e mi ha mai aiutato nel superarla. Da piccolo ero un disastro molto superiore a ora, ma nessuno mi ha mai saputo aiutare. Alla fine mi sono dovuto, e per fortuna saputo, aiutare da solo. Lo stesso motivo che m porta qui, è proprio la ricerca di informazioni su come distruggere l’indolenza.
Direi che a riguardo “indolenza” ci sarebbero anche altre cose da dire, ma prima vorrei una risposta a questo mio messaggio.
Saluti da un siciliano.
Bellissimo! Complimenti Paolo. Grazie. Gabriella