Alcuni pensano che chi si occupa di relazione di aiuto o di psicoterapia sia immune da ogni sollecitazione negativa proveniente dall’esterno. Altri invece sono convinti che questi professionisti abbiano raggiunto un equilibrio tale da non aver bisogno di nessun tipo di aiuto e confidando di possedere lo stesso stato psico-fisico prediligono il fai-da-te cercando, ricercando o documentandosi in modo autonomo.
Nulla di più sbagliato. Tutti i professionisti della relazione di aiuto sono come tutte le altre persone. La differenza sta nel fatto che, da una parte, sono più allenate all’uso di modalità che facilitano la risoluzione dei problemi, dall’altra la ricerca e la crescita continua sono alla base del loro operare.
In effetti è poco probabile che colui che non ha fatto una ricerca profonda su se stesso possa aiutare gli altri: la verifica “sulla propria pelle” di determinate difficoltà sicuramente agevola la comprensione e l’apertura verso l’altro.
Questo non significa che il professionista per poter capire i suoi assistiti debba aver sperimentato tutte le loro preoccupazioni o difficoltà: sicuramente il counselor che ha fatto una profonda ricerca e una sperimentazione continua su se stesso ha, a mio avviso, più possibilità di aiutare meglio gli altri rispetto a chi applica pedissequamente delle tecniche o che rimane lontano da riflessioni più profonde.
La ricerca del Sé è un valore importante, sempre e comunque, e chi nella relazione di aiuto non si è fermato a sperimentarla non potrà ritenersi maturo per affrontare insieme ai suoi assistiti i loro problemi e le loro difficoltà.
Quello che accade nel mondo oggi è estremamente mutevole e veloce: per questo servono capisaldi molto stabili nella formazione e nella professionalità del counselor. Aggiornamento continuo e sperimentazione non bastano se non sono accompagnati soprattutto da momenti di riflessione, autocritica, ricerca alternativa, verifica.
Durante le sessioni di counseling, possono capitare situazioni di forte negatività perché le persone non riescono ad uscire dalle proprie convinzioni limitanti oppure non riescono a relazionarsi in modo appropriato con gli altri: sono momenti così carichi di tensioni, di rancori così forti e radicati che il conselor può fare poco se non rinviare ad uno psicologo o uno psicoterapeuta.
Queste emozioni negative non devono ricadere sul counselor che comunque è coinvolto nel dialogo, ma nemmeno portarlo a considerare chi chiede aiuto come un’entità esterna verso cui si è privi di emozioni. Tra l’altro, è da ricordare, che il counseling è noto proprio per creare una relazione “amicale” che in altri contesti più strutturati non è assolutamente e doverosamente possibile.
Come reagire allora? Come proteggere il counselor, che è una persona come le altre, da queste situazioni? Attraverso il meccanismo della “supervisione”. Cosa significa “supervisione” e che ruolo gioca nelle relazioni del counselor con i suoi assistiti?
La supervisione è un momento di verifica per il professionista, significa sottoporsi ad un collega (preferibilmente più esperto) per controllare l’esistenza di una serie di prerequisiti quali, per esempio, il proprio benessere psicofisico, la capacità di mantenersi neutrale e di non essere prevenuto nei confronti degli altri. Lo scopo è quello di mantenere e aumentare la propria professionalità.
La supervisione gioca un ruolo fondamentale: basti pensare che non è logico né concepibile scaricare le proprie frustrazioni su chi si affida a un professionista per cercare soluzioni alle proprie difficoltà. Inoltre la supervisione ha anche un’importanza fondamentale nella formazione del counselor, perchè permette di acquisire conoscenze e abilità non trasmissibili sul piano teorico e di verificarne l’utilizzo sul piano pratico.
Per questo è importante che si sappia che la formazione di un counselor non si ferma alla sua abilitazione, alla certificazione o simili. Associazioni professionali come ad esempio SIAF, dove sono iscritto, addirittura richiedono una verifica periodica e continua quantificata da sistema di accreditamento non dissimile da quello di medici e psicologi.
Per questo reputo serie quelle associazioni professionali di counselor che obbligano alla “supervisione” continua perché è uno strumento essenziale per garantire sia la qualità del servizio di counseling erogato che la serietà del rapporto tra professionista e cliente.
Come vedete nessuno è immune dai problemi della vita e proprio per questo è importante, ciascuno a livelli differenti, saper chiedere e richiedere il giusto grado di aiuto di fronte alle difficoltà: nessuno escluso. Del resto se si crede nel counseling, una modalità di relazione di aiuto, si deve essere i primi ad accettarne le regole. Non credete?
Il “fai da te” tanto predicato da persone che si ritengono “arrivate” può essere pericoloso: serve sempre una guida che ci permetta di scoprirci e ci aiuti nel difficile mestiere di migliorare. Spesso, chi non ha parametri esterni oltre a se stesso, non può capire a che punto del percorso è arrivato, anche se si sente in prossimità della vetta.
Paolo G. Bianchi
Antropologo, Counselor
Bibliografia
- Burgo Stefania, “Supervisione Clinica” Alpes Italia, 2010
- May Rollo, “L’ arte del counseling. Il consiglio, la guida, la supervisione”, Astrolabio 1991
- Marcella Danon, “La terapia per aiutare gli altri ad affrontare i propri problemi con un nuovo spirito”, Red Edizioni 2009.
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