Nulla va buttato del nostro corredo genico. Anche il cosiddetto “DNA spazzatura” avrebbe infatti un ruolo decisivo, in particolare nello sviluppo e nel differenziamento delle cellule e nella regolazione di altri geni. La rivoluzionaria scoperta, frutto di un gruppo di ricerca internazionale di cui fanno parte anche Valerio Orlando del Laboratorio di epigenetica di Dulbecco e Piero Carnici dell’Omics Centre a Yokohama, è pubblicata su Nature Genetics (GJ Faulkner et al., The regulated retrotransposon transcriptome of mammalian cells, Nature Genetics, Apr 2009).
Il lavoro – spiega un comunicato stampa Telethon, fra i finanziatori della ricerca – segna una tappa storica nella ricerca genetica, svelando come il “lato oscuro del genoma” si comporti esattamente come i geni che invece rappresentano soltanto il 2% dell’intero patrimonio genetico. Non solo: quelle sequenze ripetute sono essenziali per il corretto funzionamento dei geni. Infatti, i ricercatori hanno dimostrato che alcune di queste sequenze vengono trascritte in precisi momenti della vita cellulare, per esempio durante le prime fasi dello sviluppo o il differenziamento. Altre sono in grado di inserirsi in prossimità dei geni e di regolarne l’attività: in alcuni casi, questo fenomeno può avere anche effetti patologici significativi come, ad esempio, la trasformazione della cellula sana in una tumorale.
Il lavoro di Orlando, Carninci e collaboratori dimostrerebbe per la prima volta come tali sequenze si comportino, secondo un programma definito e in grado di influenzare la vita delle cellule. L’origine evolutiva delle sequenze ripetute, che in totale rappresentano il 45% dell’intero genoma, va ricercato nei trasposoni, particolari segmenti di Dna che hanno la capacità di spostarsi da una parte all’altra di un cromosoma, oppure da un cromosoma a un altro. I trasposoni hanno un ruolo molto importante dal punto di vista evolutivo, perché data la loro natura mobile sono in grado di creare variabilità e potenzialmente di far acquisire o di far perdere delle funzioni biologiche.
Già sessant’anni fa – ricordano i ricercatori – la biologa americana Barbara McClintock lo aveva intuito e aveva descritto queste particolari sequenze nella pianta di mais: era il 1951, con due anni in anticipo rispetto alla scoperta della struttura a doppia elica del Dna. Ignorata, quando non direttamente osteggiata dalla comunità scientifica di allora, ancorata a una visione “statica” del genoma, la McClintock ha visto riconosciuti i suoi meriti solo a partire dagli anni Settanta, arrivando poi nel 1983 ad essere insignita del Premio Nobel per la Medicina. Oggi, grazie soprattutto alle sofisticate tecnologie disponibili (le deep sequencing) e alle competenze multidisciplinari, Orlando, Carninci e i loro collaboratori sono riusciti finalmente a verificare questa fondamentale ipotesi e a “riabilitare” questa grossa porzione del nostro Dna, finora considerata come una sorta di scarto o, meglio, di Dna clandestino e misterioso, apparentemente inutilizzato.
La scoperta – concludono – potrà contribuire all’analisi di tutti quei meccanismi che agiscono “al di sopra dei geni”, detti per questo epigenetici, e che potrebbero influenzare, tra l’altro, la diversa manifestazione delle malattie tra singoli individui, la risposta individuale ai farmaci o, in casi particolari, l’applicabilità della terapia genica.
Be the first to comment on "Genetica, del DNA nulla va buttato"