Io che vivo in un’isola pressoché deserta del Pacifico, ai confini della civiltà, e osservo ogni giorno le onde infrangersi sulle scogliere, ascoltando le grida degli uccelli e il rumore del vento, io che insomma me la spasso tutto il giorno, nudo, al sole… ho ricevuto da un caro amico della terraferma un messaggio recante notizie allarmanti ma anche qualche buona riflessione.
È tutto vero?
Carissimo amico,
spero tanto che questo messaggio ti trovi in buona salute. Hai saputo? Qui la situazione non è felice. Un virus si sta rapidamente propagando, e i nostri governi hanno imposto misure restrittive al fine di contenere l’epidemia. Le persone non escono dalle proprie abitazioni, la circolazione è fortemente ridotta, le scuole e i negozi sono chiusi e chi può farlo lavora da casa.
La libertà individuale è dunque limitata. Come diceva quel tale “Ogni anima o persona sia sottomessa ai poteri superiori, alle autorità costituite” (Rm 13, 1). E i poteri superiori, in questo frangente, ordinano di rimanere in casa. La limitazione della libertà di ognuno sembra essere l’unico mezzo per giungere al fine da molti desiderato, ovvero ridurre il contagio e il numero delle vittime.
Mi pare, per tanto, che la situazione d’eccezione che qui tutti stiamo vivendo metta in luce quanto da tempo vado sostenendo nelle nostre conversazioni. Quante volte ho affermato che vi è un’intima connessione tra libertà individuale e bene collettivo? Un vecchio adagio, eh? L’uomo che nel contratto sociale sacrifica una porzione della propria libertà per convivere in armonia con altri uomini e trarne i benefici associati.
E anche se il contratto sociale è pura costruzione di ragione, ubbidisco alle autorità costituite e mi privo di alcune libertà per il bene di tutti. Dove il bene di tutti è anche il mio, naturalmente, e dove l’autorità è tale – ovvero legittima – poiché rispettata e utile a garantire la convivenza pacifica e la cooperazione in vista di obiettivi comuni. E quanto allora non è possibile dire libertà senza dire al contempo obbedienza all’autorità, e dire autorità senza al contempo dire giustizia?
Ma conosci bene la mia avversione per le estenuanti e inconcludenti discussioni filosofiche, specie quelle svolte con lo scopo di aiutarci a comprendere come il mondo dovrebbe essere (e meno come di fatto è) o quali valori dobbiamo preferire. E conosci altrettanto bene il mio interesse per la psicologia sperimentale, che pure coltivo nel tempo libero e come posso.
Ecco un fatto sorprendente per lo psicologo: buona parte della popolazione ubbidisce docilmente alle autorità nonostante ubbidire significhi privarsi di una significativa porzione di libertà individuale. Pochi sono quelli che contravvengono alle norme che impongono il distanziamento sociale. Certo, si tende a stupirsi dell’eccezione e a discutere di essa, e qui infatti sento molti commentare i casi di disobbedienza. Ma per uno psicologo sperimentale il comportamento da comprendere e indagare è quello dei più, ovvero l’obbedienza.
Non vi sono dubbi che da un punto di vista teorico, almeno in questo caso, l’obbedienza all’autorità sia giustificabile dall’innegabile utilità delle prescrizioni per l’intera collettività. Si potrebbe facilmente argomentare che ubbidire è giusto perché le misure imposte sono corrette, ovvero sono utili al bene comune. Per lo psicologo, tuttavia, questo legame teorico tra giustizia e autorità è di scarsa rilevanza quando lo scopo è capire perché i molti rispettano l’autorità e le misure d’eccezione imposte. La connessione tra il rispetto per l’autorità e la giustizia o il bene comune è dunque scarsamente rilevante quando lo scopo è comprendere perché la generalità delle persone si comporta in conformità a quanto impartito dall’autorità e quali processi all’interno della mente di ognuno lo portano a decidere di ubbidire o a ritenere l’obbedienza una scelta moralmente corretta.
Ecco allora una domanda per lo psicologo: ubbidiamo semplicemente perché dobbiamo? Ubbidisco perché sì! Oppure ubbidiamo perché temiamo la punizione, ovvero una multa salata o la fedina penale sporca? Un livello certo molto primitivo, ma da non escludere. Oppure ancora ubbidiamo perché questo torna a nostro vantaggio? Ad esempio ci permette di proteggerci. Nessuno vuole essere contagiato e finire in ospedale, molto prima e molto più che essere esso stesso veicolo di trasmissione. Oppure, ancora, ubbidiamo solamente nella misura in cui comprendiamo che le norme imposte sono corrette, ovvero rispondono a un criterio di giustizia, indipendente dal rispetto per l’autorità, a cui in prima istanza adeguiamo il nostro comportamento? Reputiamo corrette e utili le misure del Governo e per tale ragione decidiamo di rispettarle, indipendentemente dal fatto che siano state imposte dalle autorità.
Qual è, in sostanza, il percorso mentale che ci porta ad adeguarci, più o meno serenamente e più o meno tutti quanti, alle prescrizioni dell’autorità? Chiaramente, nessuno possiede la risposta, ma se dovessi scommettere dei soldi (tanto non ne ho!) punterei sull’esistenza di un meccanismo innato, una propensione naturale al conformismo e alla sottomissione all’autorità. (Ho di recente scoperto un libretto veramente degno di nota, anche se curato quasi sicuramente da uno scribacchino, che presenta alcune interessanti ricerche condotte con bambini molto piccoli le quali mostrano come già nei primi due anni di vita vi sia in noi una comprensione intuitiva delle dinamiche di potere e obbedienza, e ho subito pensato che qualcosa vorrà pur dire, non trovi? Ti lascio il titolo di questo interessante libretto: Il bambino di Platone)
Ovviamente, non scommetterei che questo meccanismo dall’origine biologica sia l’unico che presente in noi ci porta a ubbidire e rispettare le norme di distanziamento sociale, ma sarei pronto a scommettere che una vocina che suggerisce di ubbidire perché ubbidire è giusto qualcuno la sente, o in qualcuno agisce determinandone il comportamento. In più d’uno anzi.
Ecco, lo so a cosa starai pensando. Purtroppo non è facile ragionare su questi temi senza attivare l’immagine degli orrori che a un’obbedienza indiscriminata sono spesso attributi. Il pensiero corre subito all’efficienza della catena di comando nella Germania nazista. E poi agli esperimenti sociali di Stanley Milgram, dove si osservano persone comuni ubbidire a uno sperimentatore sadico che ordina loro di somministrare scosse elettriche anche molto dolorose a un secondo partecipante (in realtà complice dello sperimentatore).
È facile, attivando questi riferimenti, essere portati a riflettere sui risvolti negativi dell’obbedienza all’autorità. Ma, ormai mi conosci, la mia attenzione cade di preferenza sulla norma, e raramente sull’eccezione. Quante volte abbiamo discusso i resoconti degli antropologi e le riflessioni degli psicologi evoluzionisti che, nel loro insieme, suggeriscono che la leadership e l’obbedienza all’autorità abbiano con buona probabilità giocato un ruolo fondamentale nella vita sociale dei primi gruppi umani. E non solo dei primi, anche degli ultimi! La grave situazione che stiamo vivendo potrebbe esserne l’ennesimo indizio.
Conformismo e obbedienza caratterizzano il comportamento di molti oggi. Ma nessuno pensa di intendere i termini ‘conformismo’ e ‘obbedienza’ nella loro accezione negativa. L’attuale situazione d’emergenza non fa che amplificare meccanismi che sono, a mio giudizio, costantemente all’opera nelle dinamiche sociali, ovvero la nostra tendenza ad adeguarci – per un motivo o per un altro – alle norme di gruppo e alle prescrizioni dell’autorità.
Per questo, l’emergenza legata alla diffusione del virus ci aiuta a portare l’attenzione su quanto spesso si tende a trascurare, concentrandosi invece sugli effetti negativi del conformismo e dell’obbedienza indiscriminata, ovvero che le dinamiche di obbedienza e sottomissione all’autorità garantiscono una convivenza pacifica e civile altrimenti difficilmente conseguibile, e permettono ai gruppi e alle società di evitare la diffusione del caos e di raggiungere obiettivi condivisi dai membri del gruppo o dai cittadini. La gerarchia sociale e la presenza di un’autorità o di una leadership permettono, in sostanza, di realizzare gli scopi della morale. Ti dirò di più, caro amico! Ho proprio l’impressione che siano parte integrante della morale stessa, nonostante alcuni possano non essere d’accordo.
Ma non fraintendermi, ti prego. È bene non confondere i registri del discorso. La mia curiosità, rispetto alla situazione allarmante che stiamo vivendo e che spero mai raggiunga la tua isola felice, non è diretta a capire se sia necessario ubbidire o meno, se sia moralmente giusto e per quale ragione. In sostanza, non giudico interessante dibattere di etica normativa. Trovo invece interessante comprendere cosa si muove nella testa di ognuno, quali meccanismi cognitivi portano alla decisione di ubbidire e quale morale – di fatto – possediamo (non quella che vorremmo avere).
È dunque il livello descrittivo, e non quello normativo, che più mi sta a cuore e sul quale vorrei avere una tua riflessione, caro amico. Giudico domande come ‘in quali casi e per quali ragioni pensiamo che l’obbedienza all’autorità sia moralmente approvabile?’ decisamente più interessanti rispetto a domande quali ‘è preferibile ubbidire o disubbidire a un’autorità ingiusta?’ e ‘come dobbiamo punire chi non rispetta le leggi dello Stato o l’autorità’. Un gusto tutto da psicologo, dirai. Non a torto!
Ma d’altra parte, quanto è complesso affrontare domande di etica normativa? Oggi vale più la comunità (il gregge, per dirla come si dice a Röchen) o il singolo vale in senso assoluto e tanto quanto la comunità? Uno vale uno, oppure qualcuno vale di più? Si ragiona, ad esempio, sull’ipotesi che un giovane debba avere la priorità su un anziano. Se scarseggiano le macchine per la cura di chi è colpito gravemente dal virus, che fare? È giusto dare priorità a chi è giovane? Ma soprattutto, qual è il criterio per decidere? Nel ragionamento che mi sembra diffuso (diamo priorità ai giovani!) il criterio non è certo qualitativo, piuttosto quantitativo. L’età è un numero. Ma quanti preferirebbero una lunga vita con “il pane del dolore e l’acqua dell’angoscia” a una vita più breve, ma dignitosa e felice?
Intuisco che se attorno alle risposte a queste domande sarà possibile discutere ancora a lungo, forse invece qualche punto fermo sulla natura della nostra morale potremmo trovarlo prima di quanto si creda. Non voglio certo darti false speranze qui dal Continente, ma mi sembrano aumentare le evidenze che in psicologia rafforzano l’ipotesi che accanto a una spontanea o intuitiva e precoce sensibilità alla giustizia, in particolare quella distributiva, a completare il quadro della nostra morale naturale vi siano anche una serie di intuizioni, radicate profondamente nella nostra storia come specie e strutturanti la nostra comprensione quotidiana, riguardanti le dinamiche di obbedienza e l’autorità. Un’interessante ipotesi di lavoro, questa!
Ti mando un caro saluto e un abbraccio affettuoso, e ti prego di farmi avere tue notizie e inviarmi alcuni semi di quei bei fiori che tu sai che tanto mi piacciono.
Francesco Margoni, Ph.D.
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