The Artist: l’orgoglio muto

The Artist: l’orgoglio muto.Un tempo si diceva che l’orgoglio rende ciechi, ma nel caso di “The Artist”, vincitore quest’anno di 5 premi Oscar, devo dire che rende anche… muti. Ho visto il film e mi ha molto colpito e fatto riflettere al di là dell’indiscusso valore cinematografico. Amo molto il cinema e spesso lo utilizzo come metafora o argomento di discussione con le persone che frequentano le mie sessioni di counseling.

Non è il fatto che il film sia in bianco e nero, in un momento in cui tutto è 3D, o che l’argomento sia il passaggio dal cinema muto a quello sonoro, ma sono rimasto stupito come in un contesto così “strano e d’altri tempi” tantissime emozioni possano essere trasmesse senza l’uso della parola e, tra queste, l’orgoglio.

La storia è semplice. Un affermato divo del cinema muto (sempre accompagnato dal suo fedele cagnolino a cui sembra manchi solo “la parola”) deve affrontare un grande cambiamento: l’avvento del sonoro. Il suo orgoglio gli farà sbeffeggiare chi gli propone la grande novità del sonoro, lo spingerà ad autofinanziare un film muto “vecchia maniera” che lo porterà alla bancarotta e, quel che è peggio, lo farà chiudere in se stesso, incapace di accettare l’aiuto, l’amore e le attenzioni di una giovane e attraente attrice (che lui stesso aveva avviato ad una brillante carriera) facendolo cadere nella depressione più totale. L’epilogo è naturalmente positivo: l’amore trionfa, salva il protagonista dal suicidio e la genialità dell’attrice trova la soluzione che aiuterà la carriera di entrambi.

L’orgoglio visto in bianco e nero è ancora di più funesto, forse proprio perché non c’è la distrazione del colore, e la totale assenza della parola dà un’idea profonda di come il rancore e la rabbia possano alimentare un orgoglio che può portare solo all’autodistruzione. La letteratura e il cinema sono pieni di personaggi orgogliosi, ma in questo film il protagonista mi ha colpito per la drammaticità che esprime attraverso il gesto, le parole non dette, quelle immaginate e soprattutto il gioco delle espressioni. Personalmente è stato come rivedere, attraverso i comportamenti dell’attore, le tante storie sentite nelle sessioni di counseling dove molte persone, per orgoglio, non vogliono cambiare o accettare di farsi aiutare, di dividere i loro problemi con chi li può aiutare.

Ciò che accomuna chi è molto orgoglioso è un’alta opinione di sé, delle proprie capacità e un’enorme voglia di apparire oscurando tutto e tutti. Nei discorsi che si affrontano nelle sessioni di counseling emerge sempre una forte voglia di non adattarsi alla situazioni, di non voler cambiare per svariate e invalide ragioni, di non volersi adeguare a tempi e modi. È come se la storia dovesse fermarsi a immagine e somiglianza di queste persone che, in un momento preciso della loro vita hanno avuto successo, e che ora non possono più averlo semplicemente perché le situazioni sono cambiate.

Non possiamo ancorarci al passato e cercare in esso soluzioni che invece vanno rapportate alla realtà del presente: per questa ragione chi soffre di orgoglio è di solito radicato nelle granitiche certezze di essere nel giusto e di essere incompreso da tutto e tutti. Per questo credo si dica che rende ciechi: perché impedisce di vedere di fronte a noi situazioni e persone che potrebbero risolvere i nostri problemi.

Qui non si tratta più di semplice dignità, che porta a voler cercare soluzioni decorose senza chiedere aiuto all’altro, ma di un accesso di zelo verso se stessi che rende arroganti, superbi e anche egoisti. Di solito le persone orgogliose vogliono dimostrare agli altri il loro status, il loro modo di essere e il successo che ottengono in quel particolare momento sembra proprio riconfermare il loro potere e la loro autorevolezza. Il problema nasce quando il sopraggiungere di una nuova realtà mette in crisi i punti fermi, soprattutto quelli sociali ed economici, per cui le certezze assolute si scontrano con una situazione diversa che non si vuole ammettere.

Questo è l’orgoglio negativo, quello che alimenta la rabbia nel sentirsi inadeguati e incompresi da tutto e tutti, e che fa ascoltare solo interlocutori che confermino questi sentimenti negativi e queste emozioni di chiusura. La persona è in lotta con se stesso, con i suoi principi, con la relazione tra ciò che si vorrebbe essere e non si è più. Il passo successivo è semplicemente l’autocommiserazione e la disfatta totale sotto il peso di quello stesso orgoglio che prima è stato la brace che alimentava autostima, successo ed effetti positivi. È come se la persona avesse una duplice identità in cui, non potendo più essere ciò che era prima, preferisce distruggere tutto e tutti partendo da se stesso.

Ekman individua nelle sue ricerche due tipologie diverse di orgoglio: autentico (“Sono orgoglioso di quello che sono riuscito a realizzare…”) che contrasta con l’orgoglio “presuntuoso” (“Sono riuscito a fare questo perché sono il migliore di tutti…”). È evidente che nel primo caso, in cui l’orgoglio è imputabile a costanza, sacrificio, dedizione, nel secondo pur essendo presenti gli stessi principi l’Ego della persona è al primo posto. Nella prima situazione gli aspetti sociali sono interconnessi, nella seconda totalmente assenti e dimenticati.

L’orgoglio di sicuro non è una patologia, ma può condurre a degli stati distruttivi profondi sia socialmente (verso chi sta intorno, casa, lavoro, famiglia, amicizie…) che interiormente (se stesso, il proprio sistema valoriale, le proprie emozioni, i propri sentimenti e azioni). Infatti nel film “The artist” il protagonista incarna tutte queste situazioni passando dal narcisismo più profondo all’abbandono e al tentativo di suicidio. Particolarmente struggente e drammatica la scena in cui brucia tutte le pellicole dei suoi film di successo, come se volesse annientare anche il ricordo più profondo di sé.

Incontro spesso l’orgoglio nelle mie sessioni counseling. Lo sento in persone che non vogliono chiedere aiuto anche nelle cose minime, in quelle che non vogliono mostrare piccoli handicap come usare il bastone in vecchiaia o non portare gli occhiali o il costume da bagno perché hanno delle cicatrici. È solo la punta dell’iceberg di qualcosa di più profondo che nasconde timidezze e insicurezze e la necessità continua di conferme da parte degli altri.

Cosa fare?

Renderci conto di quando i principi a cui crediamo diventano ossessioni: le regole devono renderci più liberi non schiavi e devono essere un corrimano non una gabbia!
Non avere paura di chiedere aiuto pur sapendo che dovremo ringraziare: la vita è fatta di dare e avere; è il valore che diamo allo scambio che fa la differenza
Costruire stati positivi realistici cercando di sentirci da una parte protagonisti, ma dall’altra anche comparse: per un bel film servono entrambe
Avere il senso della realtà: il presente è ciò che più conta, dalle esperienze del passato per costruire il futuro
Avere la consapevolezza che il centro del mondo non siamo noi e che quello che siamo è sempre frutto delle scelte che adottiamo pur sapendo che un po’ di fortuna aiuta sempre.

Consiglio spassionatamente a tutti (orgogliosi e non) la visione del film.

Paolo G. Bianchi
Antropologo, Counselor

Filmografia:

  1. http://www.comingsoon.it/Film/Scheda/Trama/?key=48554&film=The-Artist
  2. http://www.mymovies.it/film/2011/theartist/
  3. http://www.imdb.com/title/tt1655442/

Bibliografia:

  1. Paul Ekman AAVV: “Giù la maschera” Giunti 2006
  2. Francesca Bisogno: “Quando l’orgoglio rovina tutto” Paoline editoriale libri 1998
  3. Gabriele Palombo: “Il mal di vivere dell’uomo moderno” Armando Editore 1999
  4. Pierpaolo Donati: “Introduzione alla sociologia relazionale” Franco Angeli 2011

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